Personaggio storico Maffeo Barberini

Nato nel: 1568  - Deceduto nel: 1644

Maffeo Barberini era il quinto dei sei figli di un ricco mercante fiorentino. Come tutti i rampolli di famiglie doviziose, studiò presso i Gesuiti prima, e presso il Collegio Romano poi. Trasferitosi a Pisa conseguì la laurea in legge così come era desiderio della famiglia. 

A soli vent'anni entrò, come avvocato, nell'amministrazione dello Stato Pontificio ove svolse una lunga e prestigiosa carriera, coronata anche dall'incarico di Nunzio apostolico a Parigi. All'età di 38 anni, ovvero nel 1606, ricevette la berretta cardinalizia da Papa Paolo V, che gli fu imposta addirittura dalle mani di Enrico IV, re di Francia.

Morto lo zio che, da giovane, lo aveva ospitato a Roma, ne ereditò il cospicuo patrimonio, con il quale acquistò un prestigioso palazzo, arredandolo in maniera estremamente sfarzosa, sullo stile rinascimentale, lussuoso a tal punto da diventare il personaggio più in vista e importante di Roma.

Il pontificato del Barberini si aprì quando la c.d. "guerra dei trent'anni" era in pieno svolgimento. Le operazioni belliche erano, infatti, già iniziate da ben cinque anni e si stava per concludere il cosiddetto "periodo boemo-palatino" con la sconfitta dei protestanti, la vittoria degli imperiali e l'esilio di Federico V, principe elettore del Palatinato.

Stava per iniziare il c.d. "periodo danese" che vedeva uno schieramento di alleanze alquanto diverso da quello che aveva caratterizzato il precedente periodo. La Francia, infatti, non era più nelle mani della "reggente" Maria de' Medici, ma in quelle del potente Cardinale Richelieu, primo ministro di Luigi XIII. Il Richelieu, pur cattolico, non intendeva più appoggiare il cattolicissimo Impero asburgico, onde evitare un nuovo accerchiamento come ai tempi dell'Imperatore Carlo V. Facendo, quindi, prevalere la ragion di stato, si schierò dalla parte dell'alleanza tra l'Inghilterra, l'Olanda e la Danimarca, in funzione antiasburgica. La qual cosa significava l'appoggio della Francia ai principi luterani, con la conseguenza della fine di ogni possibilità di restaurazione cattolica in Europa.

Urbano VIII, ritenendo che la guerra in Europa si combattesse ancora per fini di religione, si era schierato con la sua amata Francia ancor prima che il Richelieu decidesse di schierarsi contro l'Impero. Questo errore di valutazione politica e strategica ebbe come conseguenza la perdita di credibilità della figura del Papa come arbitro delle controversie internazionali.

L'errore fondamentale del Barberini stava nel fatto che, invece di proporsi come arbitro delle controversie religiose, egli tentò di proporsi come arbitro delle controversie politiche tra gli Stati in lotta, autoproclamandosi, in tal modo, egli stesso come uno Stato al di sopra degli Stati. Non si era reso conto che lo Stato Pontificio, con lo scoppio della guerra dei trent'anni, non contava più nulla; il suo potere temporale non esisteva più.

Nel 1627 con la costituzione Debitum istituì la Congregazione dei Confini per provvedere alla difesa dello Stato Ecclesiastico, impedendo ogni cessione illegale, risolvendo ogni vertenza giurisdizionale interna o con gli stati esteri limitrofi e cercando di riacquisire i territori ingiustamente perduti. 

Una vicenda alquanto sensazionale lo vide impegnato nella impresa della riconquista del Ducato di Castro e Ronciglione, che in quel momento era nelle mani di Odoardo Farnese. Il Ducato di Castro, ubicato alle porte di Roma, era stato assegnato da Papa Paolo III (Alessandro Farnese) ai nipoti, unitamente a notevoli privilegi fiscali. Ma Urbano VIII aveva in odio la famiglia Farnese, per cui intendeva impadronirsi del Ducato per sostituirsi ad essa.

Approfittando che i Farnese in quel momento erano fortemente indebitati presso alcuni banchieri romani, il Papa confiscò tutti i loro beni e dichiarò loro guerra. Il Ducato di Castro fu occupato nel mese di ottobre del 1641; successivamente Odoardo Farnese fu scomunicato e il Pontefice lo dichiarò decaduto da tutti i diritti di proprietà e sovranità, minacciandolo di privarlo anche del Ducato di Parma e Piacenza.

Fallito ogni tentativo di giungere ad un accordo, il Papa dichiarò che il Ducato di Castro era possedimento della Chiesa e la famiglia Farnese ne aveva usurpato il titolo. L'atteggiamento del Papa su questa vicenda, però, indusse gli altri principi italiani a guardare con sospetto la posizione del Pontefice. Costui, infatti, se fosse venuto in possesso anche del Ducato di Parma e Piacenza, avrebbe costituito una potenziale minaccia all'integrità territoriale degli Stati dell'Italia del Nord, soprattutto perché Urbano VIII era appoggiato dalle armi francesi.

Odoardo Farnese, presa coscienza di avere l'appoggio di tutte le Signorie dell'Italia del Nord, e ottenuta l'alleanza di Firenze e Venezia, allestì un piccolo esercito, alla testa del quale marciò verso Roma, dando inizio ad una vera e propria guerra che andò avanti, con alterna fortuna, per ben quattro anni. Le operazioni militari ebbero termine soltanto a causa dell'esaurimento delle finanze da parte di tutti i belligeranti. Nel 1644 si raggiunse un accordo di pace che vide non solo la revoca della scomunica da parte del Papa, ma anche la restituzione del Ducato di Castro al Farnese. Si era consumato, in tal modo, un altro fallimento della politica di Urbano VIII. Durante il suo pontificato, il Barberini attinse a mani basse nelle casse dello Stato, sia per favorire i suoi familiari cui concesse cospicue donazioni consentendo arricchimenti scandalosi e illeciti e sia per realizzare i numerosi interventi edilizi, civili e militari, che caratterizzarono il suo ventennio sulla cattedra di Pietro. Ciò comportò un dissanguamento delle finanze dello Stato che impose il ricorso a numerose ed elevate tassazioni esclusivamente verso il popolo, facendo salvi i privilegi della classe nobiliare e del clero.

Durante il suo pontificato convocò otto Concistori, nel corso dei quali procedette alla nomina di ben 74 cardinali. Tra essi figuravano Francesco Barberini e Antonio Barberini, rispettivamente nipote e fratello del Papa; Giovanni Battista Pamphili, Patriarca titolare di Antiochia che sarà eletto Papa il 5 settembre 1644 col nome di Innocenzo X; Antonio Barberini, altro nipote del Papa; Ascanio Filomarino, Arcivescovo di Napoli; Marco Antonio Bragadin, Vescovo di Vicenza. Elevò agli onori degli altari molti santi, tra i quali ricordiamo Francis Xavier, Filippo Neri, Aloisio Gonzaga e Ignazio di Loyola.

Fin da giovane si era dilettato a comporre versi, in latino e in volgare, ridondanti nella forma e miseri nel contenuto; nel perfetto stile barocco della sua epoca. Anche da Papa continuò in questa sua attività, tant'è che nel 1637 diede alle stampe una raccolta di sue composizioni sottoscrivendosì, però, semplicemente come Maphei Cardinalis Barberini; ma si impegnò, invece, a divulgarla facendo ricorso al suo potere di capo della Chiesa.

Si circondò di poeti con cui era entrato in rapporti di amicizia (alcuni dei quali dal talento discusso o comunque di minore notorietà) - come ad esempio Gabriello Chiabrera (che presso i Gesuiti a Roma aveva studiato durante l'infanzia, Giovanni Ciampoli o Francesco Bracciolini - cui diede il compito di "cristianizzare" la poesia, in perfetto ossequio ai princìpi della Controriforma.

Ebbe rapporti particolarmente stretti con due gesuiti stranieri, Giacomo Balde, alsaziano e Casimiro Sarbiewski, polacco, la cui collaborazione nel rifacimento degli inni del suo Breviario romano, produsse soltanto un perfezionamento formale con un notevole impoverimento dei contenuti.

Urbano VIII non fu l'unico Papa-poeta. Era stato preceduto, anni addietro, da Leone X. Come il Medici, anche il Barberini amava circondarsi di poetastri e menestrelli che allietavano le giornate del Pontefice soprattutto nel periodo estivo, allorquando la corte si trasferiva nel palazzo apostolico di Castel Gandolfo.

Chiamò a Roma e diede loro asilo e protezione anche altri artisti, come Athanasius Kircher, erudito di multiforme ingegno, Giovanni Girolamo Kapsberger, musicista e virtuoso della Tiorba, e i pittori Claude Lorrain, lorenese e Nicolas Poussin, francese anch'egli.

Probabilmente il merito maggiore di Urbano VIII è ascrivibile agli interventi edilizi che caratterizzarono tutto il suo pontificato e che furono affidati agli artisti più eccelsi della sua epoca, anche se le opere volute dal Papa furono realizzate a danno di altre monumentali opere che erano pervenute a lui, pressoché intatte, sfidando per secoli l'incuria degli uomini e l'inclemenza del tempo.

Il baldacchino in bronzo sull'altare maggiore al centro della crociera della Basilica di San Pietro, opera del Bernini, è, forse, la più alta espressione della scultura barocca. Nei bassorilievi che ornano la scultura, l'artista volle rappresentare la Mater Ecclesia con un doppio volto, la sofferenza della partoriente e la gioia del bimbo che si affaccia alla vita. Nel 1621, dopo ben 170 anni di lavori, ebbe a consacrare la nuova Basilica di San Pietro, ancorché incompleta nei suoi ornamenti interni, così come era stata configurata da Michelangelo.

Oltre a Gian Lorenzo Bernini, Urbano VIII affidò la realizzazione di numerose opere anche ad altri prestigiosi artisti, quali Andrea Sacchi, Pietro da Cortona e Carlo Maderno, al quale ultimo si deve la sistemazione del palazzo apostolico di Castel Gandolfo, come lo vediamo ancora oggi.

Fu costruita la Biblioteca Barberini nella quale furono raccolti numerosi e preziosissimi manoscritti; il Palazzo Barberini ai piedi del Quirinale, il Palazzo c.d. di Propaganda Fidei, la fontana del Tritone e numerose Chiese. In campo militare procedette al potenziamento di Castel Sant'Angelo, fece fortificare l'intera città di Castelfranco e trasformò il porto di Civitavecchia in un vero e proprio porto militare.

Come detto, queste opere furono, però, realizzate attingendo i materiali da altre opere che erano pervenute al Barberini sfidando i secoli. Tutti i bronzi del Pantheon, ad esempio, sia quelli delle travi dell'atrio che il rivestimento interno della cupola, furono rimossi, nuovamente fusi e riutilizzati per i cannoni di Castel Sant'Angelo e per il Baldacchino in San Pietro. Inoltre, tutti i marmi del Colosseo furono riutilizzati per abbellire i palazzi romani e le pietre furono utilizzate addirittura per costruire nuovi palazzi. In altri termini, il Colosseo fu utilizzato come cava di materiali da costruzione. Questo scempio fece esclamare a Pasquino: Quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barberini (Ciò che non fecero i Barbari, lo fecero i Barberini).

Il pontificato di Urbano VIII vide compiersi il processo a Galileo Galilei, quale sostenitore della teoria copernicana sul moto dei corpi celesti, in opposizione alla teoria aristotelica-tolemaica sostenuta dalla Chiesa. La vicenda era nata sotto il pontificato di Camillo Borghese, Papa Paolo V (1605-1621).

Nel 1616, precisamente il 24 del mese di febbraio, il Sant'Uffizio ebbe a condannare la teoria copernicana con una duplice motivazione. La prima condannava l'affermazione che il Sole era localmente immobile al centro del sistema planetario ad esso circostante, in quanto contrastante con l'interpretazione letterale delle Sacre Scritture. La seconda condannava l'affermazione che la Terra non è centro del Mondo, ma si muove intorno al Sole, in quanto contrastante con i principi della Fede. Dopo di che la Congregazione dell'Indice passò alla condanna del De revolutionibus orbium celestium di Copernico e di tutti i testi ad esso collegati.

Galilei, sul finire dello stesso mese, si recò dal Cardinal Roberto Bellarmino, capo del Sant'Uffizio e primo sostenitore della condanna a Giordano Bruno, dal quale ottenne una lettera di attestazione nella quale il prelato affermava che lo scienziato non aveva mai ricevuto alcuna condanna e non aveva mai abiurato alcunché, ma, al contempo, veniva avvertito che la dottrina copernicana era contraria alle Sacre Scritture e, per ciò stesso, non andava né difesa, né divulgata. La lettera, ancorché concordata nel mese di febbraio, fu stilata il 26 maggio 1616.

Contemporaneamente, un nemico personale di Galilei, tal padre Seguri, si inventò di sana pianta un verbale, nel quale si testimoniava che lo scienziato era stato, invece, ammonito dal Bellarmino ad abiurare la teoria copernicana da lui condivisa, pena il carcere e che, a seguito dell'ammonimento, vi sarebbe stata la promessa di obbedienza e abiura.  Maffeo Barberini, quando era cardinale, aveva preso le difese di Galilei allorquando si erano accese, in Firenze, le dispute sulle varie ipotesi dei fenomeni di galleggiamento. Per cui, quando Egli fu eletto Papa, Galileo fu indotto a sperare in un benevolo atteggiamento del nuovo pontefice verso la sua persona e i suoi studi nonché verso la moderna scienza.

Sul finire del 1623 Galilei diede alle stampe un volume intitolato Il Saggiatore, con dedica al nuovo Pontefice. In quest'opera lo scienziato, trattando del moto delle comete e di altri corpi celesti, confermava indirettamente la validità della teoria copernicana. Inoltre sosteneva che la conoscenza progredisce sempre, senza mai assestarsi su posizioni dogmatiche. In altri termini l'uomo ha il diritto-dovere di ampliare la conoscenza senza mai aver la pretesa di pervenire alla verità assoluta. Questa posizione, secondo lo scienziato, non era per nulla in contrasto con la Fede.

L'opera di Galilei fu valutata positivamente da Urbano VIII. Il Papa ricevette ufficialmente lo scienziato a Roma nel mese di aprile del 1624 e lo incoraggiò a riprendere i suoi studi sul confronto tra i massimi sistemi, purché il confronto avvenisse soltanto su basi matematiche. La qual cosa era da intendersi nel senso che una certezza matematica, ovvero astratta, nulla aveva a che vedere con le certezze del mondo reale. Seppur con questa limitazione, la Chiesa di Roma sembrava aver ammorbidito la sua posizione circa la nuova teoria.

Il 21 febbraio del 1632, fresco di stampa, la comunità scientifica e non, ebbe tra le mani l'ultima opera di Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, nella quale veniva definitivamente dimostrata la validità del sistema eliocentrico.

Le reazioni ostili non si fecero attendere. Nell'estate dello stesso anno Urbano VIII esternò tutto il suo risentimento in quanto una sua tesi era stata trattata, secondo lui, maldestramente ed esposta al ridicolo. Inoltre, nel testo, vi era più di un riferimento al pontefice quale difensore delle posizioni più arretrate. Infine, l'opera si chiudeva con l'affermazione che era possibile dissertare sulla costituzione del mondo, a patto di non ricercare mai la verità. Questa conclusione non era altro che un espediente diplomatico escogitato pur di andare in stampa. La qual cosa aveva fatto, giustamente, infuriare il Pontefice.

I nemici di Galilei intravidero nel Dialogo un attacco frontale al binomio teologia-filosofia che si riteneva fosse l'unica strada percorribile per l'accertamento della verità, considerando la scienza una via del tutto subordinata, asservita, cioè, alle discipline teoriche.

Forse, però, l'aspetto che i censori ritenevano più pericoloso del trattato, era rappresentato dal fatto che il testo era stato scritto in italiano e non in latino, lingua tradizionale per le opere destinate agli studiosi. In altri termini, adoperando la lingua italiana, ovvero volgare, come si diceva a quei tempi, lo scienziato aveva palesemente dimostrato l'intenzione di dare la massima diffusione al contenuto della sua opera, anche e soprattutto al di fuori del mondo accademico.

Nel mese di luglio del 1632, l'Inquisizione di Firenze diede ordine di ritirare tutte le copie in commercio del Dialogo. Urbano VIII, spinto dai gesuiti, nemici acerrimi dello scienziato, diede ordine di inviare copia del Dialogo al Sant'Uffizio per gli opportuni esami e di convocare Galilei a Roma presso l'Inquisizione.

L'accusa mossa a Galilei era che egli non si era limitato a trattare la teoria copernicana in termini puramente matematici, bensì l'aveva fatta propria, completamente.

Il 12 aprile del 1633 Galilei si presentò a Roma e fu arrestato. Comprendendo che il tribunale dell'Inquisizione era intenzionato a reprimere, con ogni mezzo, la divulgazione delle idee esposte nel Dialogo, si offrì di apportare delle correzioni che tenessero in conto le esigenze della Dottrina di Santa Romana Chiesa. Ciò non fu bastevole. Il Papa, benché fosse sempre stato informato, per suo desiderio, degli interrogatori, si era guardato bene dall'intervenire. Ciò aveva fatto sperare in un suo intervento a favore del pisano. La qual cosa non avvenne.

Allo scienziato fu imposto un pubblico atto di abiura. Diversamente avrebbe dovuto subire tutte le pene riservate agli eretici. Galilei dovette piegarsi. Con l'atto di abiura si impegnava, altresì, a non divulgare più, in avvenire, le idee copernicane e a denunciare al Sant'Uffizio chiunque, in futuro, ne avesse tentato di riprendere la divulgazione. Ciò accadeva nell'estate del 1633.

Galilei fu trasferito prima a Pisa e poi nella sua casa di Arcetri, ove gli fu concesso di espiare il carcere tra le mura domestiche in considerazione della sua anzianità. Aveva già 66 anni. Negli anni a venire sopraggiunse anche la cecità che non gli impedì di dare alle stampe in Leida (Olanda) nel 1638 un'altra opera fondamentale del suo ingegno, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (si trattava della fisica del moto e della resistenza dei materiali).

Gli fu concesso di trasferirsi a Firenze ove si spense nel mese di gennaio del 1642. Curiosamente, per una di quelle strane coincidenze della Storia, nello stesso anno, precisamente nel giorno di Natale, in Inghilterra, a Woolsthorpe nel Lincolnshire, nasceva Isacco Newton.

Maffeo Barberini si spense il 29 luglio 1644. Era riuscito a sfuggire a due congiure. La Basilica di San Pietro raccoglie le spoglie mortali di Urbano VIII in un monumento funebre realizzato da Gian Lorenzo Bernini in bronzo e marmo, commissionato dallo stesso Papa fin dal 1628 e completato nel 1647.

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