Personaggio storico Paolo Caliari

Nato nel: 1528  - Deceduto nel: 1588
Paolo Caliari, detto il Veronese, è stato un pittore italiano rinascimentale della Repubblica di Venezia.
Figlio di un certo Gabriele, scalpellino, assunse il cognome Caliari probabilmente nel 1555 (anno in cui per la prima volta egli si firma così in una lettera).
La sua formazione si svolse nella natia Verona, ma di grande rilievo per gli influssi che ebbero sulla sua arte e sulla sua carriera furono anche le giovanili esperienze fatte prima nel trevigiano e poi a Mantova, presso la corte dei Gonzaga. In seguito si trasferì a Venezia, ove divenne noto come "Il Veronese", e dove dal 1556 risiedette pressoché stabilmente fino alla morte, ottenendo notevoli successi sin dall'inizio della sua permanenza lagunare.
Nel 1566 sposò Elena Badile, figlia del suo primo maestro Antonio Badile, dalla quale ebbe cinque figli, compresi Carlo (20 luglio 1570 - 1596) e Gabriele (1568 - 1631) che, con il fratello di Paolo, Benedetto, furono i suoi principali collaboratori e che, dopo la sua morte, ne proseguirono, con modesto esito, l'attività di bottega, ormai tra le maggiori di Venezia, talvolta firmando collettivamente le loro opere con la dicitura Heredes Pauli Caliari Veronensis.
Attratto sin dalle sue prove d'esordio dalle innovazioni manieristiche piuttosto che dallo stile antichizzante dei suoi primi maestri veronesi, Caliari terrà ferma questa sua matrice anche dopo l'insediamento a Venezia. Difatti, pur certamente attingendo anch'egli alla grande tradizione veneziana – allora incarnata da Tiziano e dal nascente genio di Tintoretto – Paolo mantenne, anche in laguna, un'identità artistica “altra”, “foresta”. Nella pittura del Veronese, infatti, il disegno sarà sempre, con la parziale eccezione della sua produzione estrema, un valore centrale, mentre non lo fu nella coeva pittura veneziana, e così pure il trattamento del colore sarà diverso dalla tradizione autoctona: il Veronese, infatti, non farà mai del tutto suo il tonalismo (altra caratteristica di fondo della pittura veneziana del tempo), ma preferirà un uso del colore netto e vivace, con campiture ben definite e caratterizzate, in modo diverso dalla pittura tonale, da decisi cangiantismi.
Rilevante sarà il suo lascito per i successivi sviluppi della pittura in laguna, dove in epoca tardo barocca maestri quali Sebastiano Ricci e ancor di più il Tiepolo ne riprenderanno in modo evidente l'esempio.
Fuori dall’ambito veneziano forte fu l’influsso del Caliari sul bolognese Annibale Carracci e prima ancora sul fratello di questi Agostino che in sodalizio con lo stesso Paolo si dedicò ad una fortunata attività di traduzione incisoria della produzione pittorica del Veronese. Tramite i Carracci l’arte di Paolo Caliari diverrà una delle componenti di rilievo della ventura pittura barocca italiana.
Il suo apprendistato si svolse a Verona nella bottega di Antonio Badile (e forse anche con Giovanni Francesco Caroto). È opinione condivisa tra gli storici dell'arte, tuttavia, che questa iniziale formazione non ebbe influenze rilevanti sul futuro stile del Veronese, mentre notevole importanza, a partire dal Vasari, è attribuita al rapporto che il giovane Paolo ebbe con l'architetto e suo mentore Michele Sanmicheli, che lo introdusse alle innovazioni manieristiche sia di ascendenza tosco-romana, la cui fonte è Giulio Romano, a lungo attivo nella vicina Mantova, sia di stampo emiliano, riferibili all'opera del Correggio e del Parmigianino.
Già le sue opere giovanili, eseguite a Verona, testimoniano la precoce attenzione del Veronese alla "maniera moderna", come la Pala Bevilacqua-Lazise del 1548, realizzata per la cappella funeraria della famiglia committente nella chiesa di San Fermo Maggiore (oggi nel Museo di Castelvecchio), la cui complessità compositiva evidenzia il superamento dello stile del Badile e per l'appunto il recepimento di influssi manieristici.
Lo stesso può dirsi della coeva Lamentazione su Cristo morto - ritenuta il capolavoro giovanile del Veronese -, tela commissionata dai Girolamini per la chiesa scaligera di Santa Maria delle Grazie (ora anch'essa a Castelvecchio) che, per composizione e uso del colore, è avvicinabile alla pittura del Parmigianino.
Altra notevole prova giovanile e pre-veneziana del Caliari è costituita dal Matrimonio mistico di santa Caterina, risalente al 1547 e realizzata in occasione delle nozze di esponenti della nobiltà veronese.
Negli anni successivi lavorò, grazie ai buoni uffici del Sanmicheli, nei pressi di Castelfranco Veneto per i Soranzo (1551), affrescandone la villa di famiglia, edificata proprio dal Sanmicheli. Tali pitture poi vennero malamente strappate (e la villa distrutta) e i resti più significativi si trovano oggi nella sagrestia del Duomo di Castelfranco Veneto. L'apprezzamento di questa prova fruttò al Veronese la prestigiosa chiamata da parte di Ercole Gonzaga a Mantova (nel 1552) per eseguirvi una pala d'altare per il Duomo raffigurante le Tentazioni di sant'Antonio (Museo di belle arti di Caen), dove ancora una volta il giovane Veronese dimostra la sua piena adesione alla cultura manieristica, rivolgendosi, in questa occasione, al suo versante romano e citando probabilmente il Torso del Belvedere.

Presumibilmente tra il 1560 e il 1561, il Veronese fu chiamato a decorare Villa Barbaro a Maser, nel trevigiano, una nuova costruzione dell'architetto Andrea Palladio. I committenti dell'opera furono i proprietari della villa, i fratelli veneziani Daniele e Marcantonio Barbaro (il primo dei quali già incontrato da Paolo nelle sue vicende professionali). Colti e raffinati umanisti, i due committenti furono con ogni probabilità ideatori essi stessi del tema della decorazione ad affresco realizzata dal Veronese e della sua équipe. È plausibile che i Barbaro avessero tratto spunto, a tal fine, dalle Immagini degli Dei Antichi di Vincenzo Cartari, fortunato trattato cinquecentesco sull'iconografia delle divinità classiche.
L'interpretazione più comune del complesso ciclo è che esso celebri l'armonia universale propiziata dalla Divina Sapienza, la cui rappresentazione allegorica occupa il soffitto della sala principale della Villa (Sala dell'Olimpo). In questa stessa sala, su un loggiato illusionistico, posto in continuità con la finta architettura che inquadra l'allegoria della Sapienza, si affaccia Giustiniana Giustinian, moglie di Marcantonio Barbaro accompagnata da una nutrice. È una delle immagini più celebri degli affreschi di Maser ed è un saggio notevole sia dell'abilità di ritrattista del Veronese, sia della sua capacità di mettere in rapporto lo spazio reale con quello illusorio.
Il dialogo tra l'architettura reale del Palladio e quella immaginaria del Veronese, infatti, è una delle caratteristiche di fondo della decorazione di Villa Barbaro, che abbonda di finte porte, finte nicchie, di effetti di sfondato che dilatano lo spazio verso bellissimi paesaggi realistici ovvero verso i cieli empirei in cui sono inscenate le rappresentazioni allegoriche.
Molto ha fatto discutere, pertanto, la mancata citazione degli affreschi da parte del Palladio ne I quattro libri dell'architettura, dove, nella descrizione della Villa di Maser, di essi non è fatta menzione. Vi è chi ne ha dedotto il mancato apprezzamento da parte del grande architetto del lavoro del Veronese. Sta di fatto però che in altro passo dei Libri lo stesso Palladio elogia il Veronese e che, sempre a proposito della Villa di Maser, non si fa cenno nemmeno all'apparato scultoreo predisposto da Alessandro Vittoria, artista anch'esso apprezzato dal Palladio.
L'apparato allegorico della decorazione della villa prosegue con le celebrazioni della fecondità della terra (Sala di Bacco), e dell'amore coniugale (Sala del Tribunale d'Amore). Il tutto poi si completa raccordando gli ideali umanistici con la fede cristiana alla cui celebrazione cui è dedicata la decorazione della Sala del Cane e di quella della Lucerna.
Infine, nella Sala a Corciera spiccano bellissime figure femminili di musicanti (le "muse", le definisce Carlo Ridolfi), collocate in nicchie illusionistiche.
Tra le invenzioni più note del Veronese si annoverano le grandi scene corali dedicate ai banchetti evangelici, comunemente indicate come Le cene. Si tratta di tele di grandissimo formato, in cui l'episodio evangelico è di fatto il pretesto per mettere in scena le sontuose feste dell'aristocrazia veneziana del tempo.
Le scene sono affollatissime e in primo piano non vi sono le dramatis personae del racconto evangelico, che al contrario sembrano quasi essere ignorate, ma gli altri numerosi astanti, inseritivi per pura invenzione pittorica, senza alcuna aderenza al testo sacro: servitori, musici, buffoni, spettatori.
Il convivio generalmente si svolge in grandi loggiati, inquadrati da quinte architettoniche magistralmente riprodotte, che riecheggiano le realizzazioni di Andrea Palladio e la trattatistica di Sebastiano Serlio. Ovviamente, anche questi elementi architettonici sono del tutto incompatibili con i luoghi sacri in cui gli eventi raffigurati si sarebbero svolti per la narrazione evangelica.
Tutto, in queste invenzioni del Veronese, è all'insegna dello sfarzo, come i raffinatissimi abiti indossati dai personaggi raffigurati (ad eccezione dei protagonisti evangelici), che sono abbigliati secondo la più elegante moda veneziana dell'epoca, come il pregiato vasellame che ingombra la tavola, come la stessa la ricercatezza dei marmi e delle decorazioni degli ambienti in cui il tutto si svolge. Nella folla dei presenti abbondano i ritratti di persone reali e pare, almeno in un'occasione, vi compaia anche l'autoritratto dell'autore.
La serie delle Cene è aperta, tra il 1555 e il 1556, dalla Cena in casa di Simone (oggi conservata nella Galleria Sabauda di Torino), che il Veronese eseguì su incarico dei monaci benedettini di San Nazaro e Celso per il refettorio del loro convento a Verona.
Tra le prove successive celebre è Le Nozze di Cana (1563) che il Veronese dipinse per i benedettini dell'Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia e che oggi si trova al Louvre.
Ma ancor più celebre è l'ultima della serie, il Convito in casa Levi (1573), attualmente presso le Gallerie dell'Accademia, a Venezia. La notorietà della tela è dovuta anche all'interessamento dell'Inquisizione che essa suscitò e che, come è risaputo, costrinse l'autore a cambiare il titolo dell'opera (e quindi l'episodio raffigurato): dall'iniziale Ultima Cena all'attuale Convito in casa Levi.
Anche se la reprimenda inquisitoriale nei confronti del Veronese fu assai blanda, essa è egualmente un eloquente segno dei tempi. Quando il Veronese, per l'ultima volta, si cimenterà con un convivio evangelico lo farà in tutt'altro modo, stando ben attento ad uniformarsi ai dettami della Controriforma in materia di pittura religiosa.
È il caso dell’Ultima Cena realizzata nel 1585 e ora conservata nella Pinacoteca di Brera. Tutto lo spettacolare apparato scenografico delle Cene è ormai scomparso e protagonista chiaro della rappresentazione, come sottolineano anche gli effetti luministici, è Gesù. L'atmosfera è raccolta ed è percettibile l'intenzione dell'autore di stimolare, come vogliono le indicazioni del Concilio di Trento, il sentimento devozionale degli osservatori. Infine, l'accento è didascalicamente collocato sull'istituzione dell'Eucaristia, tema assai caro alla Controriforma.

Come testimonia Carlo Ridolfi, il gradimento dei Barbaro per gli affreschi di Maser fece sì che a Paolo venisse commissionata, nel 1561, una parte della decorazione della Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale, dedicata ad un episodio delle imprese di Federico Barbarossa (opera andata distrutta in un incendio del 1577). Il prestigio della commissione ricevuta dal Veronese lo consacra tra i maggiori, e più richiesti, pittori di Venezia.
Gli anni a seguire, infatti, saranno anni di intensissima attività, che vedono Paolo e la sua bottega impegnati in innumerevoli opere per le chiese veneziane e di terraferma, per il Patriziato veneziano e ancora per il governo serenissimo. Oltre alle già menzionate Cene, nel settimo ed ottavo decennio del Secolo, il Veronese dipinge un cospicuo numero di grandi pale d'altare. Dello stesso periodo sono dei grandi ritratti di gruppi familiari realizzati per la nobiltà veneziana, né è trascurata la produzione di tavole di più piccolo formato dedicate a temi mitologici con palesi allusioni erotiche e sensuali.
Infine, dopo il devastante incendio che nel 1577 colpisce il Palazzo Ducale, il Veronese è chiamato, assieme a Tintoretto, a decorare nuovamente la Sala del Maggior Consiglio. In quell'occasione il Veronese realizza uno dei suoi più imponenti capolavori, l'immenso telero ovale che celebra il Trionfo di Venezia (posto in opera nel 1582). Secondo il giudizio critico è un'opera che chiude un ciclo, quello della pittura fastosa e mondana di Paolo Veronese - carattere riconoscibile anche nelle sue opere di tema religioso di questo periodo - dal colore vivace e di gusto decorativo. Quella pittura, cioè, che secondo l'Argan, consente di individuare nel Veronese: «l'interprete dell'apertura intellettuale e del civile modo di vita che fanno della società veneziana, in un tempo di conformismo moralistico e di involuzione neo-feudale, la società più libera e culturalmente avanzata».
Le opere che seguiranno negli anni a venire e fino alla sua morte si collocheranno su registri molto diversi. Del resto il "conformismo moralistico" cui allude Argan alla fine approderà anche in laguna.

Oltre ai ritratti mimetizzati nelle Cene o a quelli di gruppi familiari, il Veronese praticò pure il ritratto individuale ed anche in questo campo raggiunse risultati di notevole rilievo che lo collocano tra i maggiori ritrattisti del suo tempo.
Quelli del Veronese sono ritratti di particolare raffinatezza, caratterizzati dal frequente utilizzo del formato a figura intera, aspetto non comune nella coeva pittura veneziana. Le commissioni ricevute dal Veronese in questo campo non riguardarono i ritratti di Stato di funzionari pubblici del governo serenissimo (settore in cui fu molto attiva la bottega del Tintoretto) e che sono parte cospicua della ritrattistica lagunare del Cinquecento, bensì derivano dal più alto ceto borghese e aristocratico (veneziano e di terraferma) che in questi dipinti ha inteso far raffigurare il proprio benessere economico, la propria eleganza, ma anche la ricercatezza culturale dei suoi gusti. Anche a causa della particolarità della committenza e dell'estrema cura esecutiva che caratterizza la ritrattistica del Veronese, i ritratti a lui riferibili sono relativamente pochi, nell'ordine di una trentina (ancor meno quelli di autografia relativamente incontroversa).
Già in fase giovanile il Veronese dimostra la sua abilità nel genere con i ritratti dei coniugi vicentini Iseppo da Porto e Livia da Porto Thiene (realizzati tra il 1551 e 1552 e conservati il primo agli Uffizi e il secondo al Walters Art Museum di Baltimora). Ognuno dei due coniugi è raffigurato a figura intera in un dipinto a sé stante, ma è certo che i due ritratti costituissero dei pendants affissi alla stessa parete. Probabilmente i due quadri erano separati da una finestra, come suggerisce la speculare provenienza della luce in ognuno di essi. I personaggi sono collocati in una finta nicchia e sono lussuosamente vestiti. Sia Iseppo sia Livia sono accompagnati da uno dei loro bambini. Efficacissima è la resa materica dei tessuti, delle pellicce, dei gioielli (notevole è il particolare della finta testa in oro della pelliccia di mustela imbracciata da Livia) che, unitamente alla caratterizzazione psicologica dei personaggi fa di questi pendants uno dei più significativi esempi di ritratto coniugale del Cinquecento.
Altro notevole documento della ritrattistica del Veronese è il ritratto di Daniele Barbaro (1560/62, Rijksmuseum di Amsterdam), raffigurato nel suo studio accompagnato dai suoi trattati di architettura vitruviana, di cui il Veronese riproduce anche le illustrazioni. La posizione del Barbaro sulla sedia e lo sguardo diretto negli occhi dell'osservatore sono forse citazioni del ritratto di Paolo III Farnese di Tiziano.
Una delle sue prove più alte nel genere è considerato il Ritratto di nobildonna veneziana (ca. 1560, Louvre), noto come La Bella Nani, appellativo che deriva dalla convinzione (forse errata) che il dipinto sia appartenuto alla omonima famiglia veneziana. Sconosciuta è l'identità della donna effigiata: taluni ipotizzano che possa trattarsi della moglie del Veronese, Elena Badile, altri che la nobildonna del dipinto possa essere individuata in Giustiniana Giustinian, già ritratta ad affresco nella villa di Maser. Indipendentemente dall'identità della donna, il ritratto è un saggio dei canoni di bellezza muliebre della Venezia del Cinquecento, al punto che alcuni studiosi hanno messo in dubbio che si tratti di un vero e proprio ritratto, individuandovi piuttosto una figura idealizzata. In questo caso il Veronese si è avvalso di un fondo nero che dà maggior risalto alla carnagione chiara e ai capelli biondi della dama. Il suo atteggiamento mostra modestia, ma la ricchezza dei suoi abiti e ancor più dei suoi gioielli, che il Veronese riproduce con abilità di orafo, ne sottolineano l'altissimo lignaggio.

L'ultima fase della pittura di Paolo Veronese mostra un netto cambiamento dello stile e del gusto che nei decenni precedenti ne sono stati le caratteristiche salienti.
Vari fattori hanno spinto in questa direzione. Innanzitutto, anche a Venezia, sia pure più tardi che altrove, le raccomandazioni controriformistiche in materia di arti figurative, infine, si impongono ed, anzi, sarà proprio l'ultimo Veronese ad essere uno dei maggiori testimoni in laguna della pittura controriformata.
Anche le vicende veneziane dell'ultimo scorcio del Cinquecento rendono opportuna la scelta di toni diversi. Nel 1576 Venezia, infatti, è colpita da una spaventosa pestilenza che miete parte rilevante della popolazione cittadina. Allo stesso tempo sempre più chiare sono le avvisaglie del declino della potenza adriatica della Serenissima a causa dell'espansionismo turco, fenomeno che la vittoria di Lepanto ha solo rallentato, ma di certo non fermato. In questo clima di lutto e inquietudine la pittura gioiosa e dal colore vivacissimo, stigma per tanti anni dell'arte del Veronese, non ha più posto.
Gli ultimi dipinti del Veronese, infatti, sono caratterizzati da atmosfere cupe, frequenti sono le scene notturne e di gran lunga prevalenti sono le raffigurazioni di tema religioso. In queste opere Paolo si uniforma pienamente alle indicazioni conciliari tridentine: i suoi quadri di tema sacro del nono decennio del XVI secolo hanno chiari intenti edificanti e di stimolo alla meditazione sull'esempio dei santi e dei martiri.
Spesso la scelta del tema cade su episodi della Passione di Cristo. Oltre alla già menzionata Ultima Cena braidense, significativo esempio di queste tendenze della produzione estrema di Paolo Caliari è la grande Crocifissione della chiesa veneziana di San Lazzaro dei Mendicanti (ca. 1580). In quest'opera, dallo schema compositivo volutamente semplice, quasi medioevale, il Veronese comunica tutta la drammaticità dell'evento, mettendo in pieno risalto il sangue versato dal Crocifisso ed evidenziandone la funzione salvifica.
Anche sul piano più strettamente stilistico le ultime opere del Veronese segnano un evidente mutamento rispetto al passato che contribuisce anch'esso a sottolineare le nuove finalità artistiche del Caliari: il disegno si fa meno definito e si attenuano i contrasti cromatici, quasi avvicinandosi alla pittura tarda di Tiziano.
L'ultima produzione del Veronese non godette inizialmente di particolare favore, probabilmente perché nell'immaginario critico l'opera del Caliari venne strettamente associata alla pittura dei suoi anni antecedenti, dalle Cene ai grandi cicli decorativi laici e religiosi, anche a causa della ripresa che di questo stile fece, con enorme successo, Giambattista Tiepolo (definito "Veronese redivivo").
Probabilmente, proprio causa di questa iniziale sfortuna critica alcune sue opere tarde, come i cicli di San Nicolò della Lattuga o quello noto come Serie del Duca di Buckingham, di cui oggi non è certa nemmeno l'ubicazione originaria (forse il monastero delle Convertite alla Giudecca), vennero smembrati e si trovano suddivisi tra vari musei del mondo. Sempre per lo stesso motivo alcuni dei suoi ultimi lavori, ad esempio l’Incoronazione della Vergine (ca. 1586), realizzata per la chiesa di Ognissanti e oggi all'Accademia, vennero sbrigativamente ritenute opere di bottega. È un giudizio attualmente in sede di profonda revisione e sempre più è opinione condivisa che l'opera estrema del Veronese, pur così diversa dalla sua pittura precedente, raggiunse egualmente esiti di elevatissimo livello.
L'ultima fatica del Veronese è la Conversione di san Pantaleone (1587), realizzata per la chiesa veneziana di San Pantalon (tuttora in situ), nella quale la diligenza agiografica della raffigurazione non fa ombra alla grandezza dell'arte di Paolo Caliari da Verona.
Poco dopo, nell'aprile del 1588, il Veronese si spegne; è sepolto nella chiesa di San Sebastiano a Venezia, dove tanta parte della sua opera lo circonda.

Paolo Caliari Dove ha soggiornato

Biblioteca Nazionale Marciana

 Piazzetta San Marco, 7 - 30124 Venezia - Venezia
Biblioteca

La Biblioteca Marciana si trova in Piazza San Marco, tra il Campanile e la Zecca, ed è la biblioteca più importante di Venezia, nonché una delle più grandi d’Italia, sorta in seguito alla... vedi

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Il Castello di Thiene sorge al centro dell'ominima città circondato da giardino, e rappresenta uno degli esempi più significativi di villa tardo quattrocentesca su modello dei palazzi veneziani... vedi

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Villa Barbaro è situata, in posizione emergente, su un lieve declivio che digrada verso la pianura dalle pendici del sistema collinare esteso a nord dell’abitato di Maser. vedi

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