Girolamo Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino, è stato un pittore italiano, fondamentale esponente della corrente manierista e della pittura emiliana in generale. Il soprannome, oltre che dalle origini, gli derivò dalla corporatura minuta e dall'aspetto gentile.
I Mazzola, anticamente originari di Pontremoli, si erano trasferiti a Parma fin dal 1305 e avevano praticato il commercio e l'artigianato ottenendo una solida base economica.
In un documento dell'archivio del Battistero di Parma, Francesco risulta nato nella vicinia di San Paolo a Parma, l'11 gennaio 1503, dal pittore Filippo Mazzola e, come si ricava da altri documenti, una certa Donatella Abbati; ottavo di nove figli, fu battezzato due giorni dopo, il 13 gennaio. Il padre, dalla prima moglie Maria (figlia del pittore cremonese Francesco Tacconi, del quale era stato allievo) aveva avuto i figli maggiori, tra cui si conosce solo uno Zaccaria, pittore di scarso rilievo attivo in Umbria.
La famiglia del Parmigianino viveva nel vicolo delle Asse, oggi chiamato "borgo del Parmigianino". Anche gli zii Pier Ilario e Michele erano pittori che, alla morte di Filippo, avvenuta secondo il Vasari nel 1505 per un'epidemia di peste, si presero cura di Francesco per avviarlo allo studio del disegno e della pittura, "ancor che essi fussero vecchi e pittori di non molta fama". I suoi zii furono infatti artisti modesti, ripetitori di una provinciale pittura di origine ferrarese: poterono insegnargli solo il corredo tecnico necessario a qualunque apprendista. Esempi importanti per la sua formazione artistica, anche se non decisivi, furono piuttosto gli affreschi del Correggio e dall'Anselmi a Parma e l'osservazione delle opere dei lombardi operanti a Cremona, come il Melone, il Bembo e soprattutto il Pordenone; dovette inoltre guardare a opere in città come quelle di Cima da Conegliano e Francesco Francia, nonché ai maestri locali come Francesco Marmitta e Cristoforo Caselli.
Molto probabilmente ebbe modo anche di ricevere un'educazione letteraria e musicale. La sua consuetudine con la lettura è testimoniata ad esempio in un disegno relativo agli affreschi della Rocca di Fontanellato dove compare il primo verso della lirica CCCXXIV del Canzoniere di Francesco Petrarca
Il successo in San Giovanni gli aprì le porte di nuove commissioni. Già il 21 novembre 1522 i fabbricieri del Duomo di Parma firmarono un contratto coi suoi zii per la decorazione con quattro figure della crociera sopra l'altare. In quell'occasione egli è già definito "magister", malgrado la giovanissima età che richiede ancora la presenza dei tutori, e viene pattuito un congruo compenso di 145 ducati d'oro (si pensi che a Correggio per l'intera cupola e le pertinenze erano stati accordati, il 3 novembre, mille ducati). Parmigianino però alla fine in Duomo non mise mai alla prova il proprio pennello.
Nel 1523 o, al più tardi, nella prima metà del 1524, prima della partenza per Roma, nel soffitto di una stanza della Rocca Sanvitale di Fontanellato, presso Parma, affrescò la cosiddetta "stufetta" (bagno privato) con quattordici lunette con episodi della favola ovidiana di Diana e Atteone, intramezzate da pennacchi in cui sono dipinti dodici putti; lo sfondo è dato da un pergolato a cui segue più in alto una siepe di rose oltre la quale si affaccia il cielo; al centro del cielo è uno specchio rotondo recante la scritta RESPICE FINEM ("osserva la fine", inteso della storia).
Nell'estate del 1524, cessata un'epidemia di peste, partì a Roma; nel viaggio a Roma Francesco fu accompagnato dallo zio Pier Ilario, e forse passando per l'Umbria si unì ai due anche suo fratello Zaccaria, al cui firma si trova tra quelle degli artisti nelle "grotte" della Domus Aurea.
Arrivato a Roma fece dono delle sue opere a papa Clemente VII, ma non ottenne commissioni dirette dal pontefice, nonostante la promessa di affidargli la Sala dei Pontefici nell'Appartamento Borgia. Lavorò piuttosto per personaggi della corte pontificia, come Lorenzo Cybo, capitano delle guardie pontificie, che ritrasse verso il 1524. In questa opera, oggi a Copenaghen, confermò la sua grande acutezza d'individuazione psicologica.
La conta delle opere create nel breve soggiorno romano è un argomento assai controverso nella critica. Molti lavori sono infatti riferiti ora al 1524-1527, ora ala successivo periodo bolognese (fino al 1530). Ad esempio la Sacra Famiglia con san Giovannino del Museo di Capodimonte è il più raffaellesco e classico dei suoi dipinti, con richiami alla Madonna del Diadema blu della bottega di Raffaello, ma oggi si tende in genere ad identificarlo con una delle opere a "guazzo" che Vasari ricordò come eseguite appena arrivato a Bologna.
Sicuramente a Roma eseguì la Visione di san Girolamo, una monumentale pala d'altare che avrebbe dovuto essere al centro di un trittico, commissionato da Maria Bufalini di Città di Castello. La tavola, dipinta nel 1527, fu preceduta da un intenso lavoro preparatorio e fu interrotta per il sopraggiungere dei Lanzichenecchi durante il Sacco di Roma. Il 6 maggio 1527 i Lanzichenecchi giunsero dunque in città. Nonostante i drammatici avvenimenti del Sacco, inizialmente il pittore restò in città dove, secondo la cronaca che fornisce Vasari, trovò la protezione di alcuni soldati tedeschi folgorati dalla visione della pala a cui stava lavorando. Essi gli richiesero disegni e acquerelli come taglia, ma poi, sentendosi minacciato da altre truppe, fu spedito in tutta fretta in Emilia dallo zio Pier Ilario, che si trovava con lui, il quale si prese cura prima di lasciare a sua volta la città di affidare la Visione di san Girolamo ai frati di Santa Maria della Pace.
Studi recenti ipotizzano che la spavalda avventura del Parmigianino fosse stata in realtà resa possibile dal rifugio trovato presso gli accoglienti Colonna, filoimperiali, proprio in virtù delle sue conoscenze coi Sanvitale a essi imparentati.
Giunse nel giugno 1527 in Emilia, ma invece di tornare a casa decise di stabilirsi a Bologna, che a quell'epoca era la seconda più popolosa città dello Stato Pontificio: probabilmente la fama acquistata nella Città Eterna lo spinse a cercare fortuna in un altro grande centro, piuttosto che la propria città. Vi rimase quasi quattro anni, durante i quali raggiunse la maggiore età, emancipandosi completamente dagli zii.
La scarcerazione è databile ai primi mesi del 1540 e una tradizione locale, non confermata da documenti, riporta come l'artista, prima di fuggire, distrusse quel poco di suo che era abbozzato nell'abside della Steccata, offeso dall'onta dei confratelli. Se ne fuggì quindi in tutta fretta a Casalmaggiore, cittadina appena al di fuori dei confini dello Stato parmense, oggi in provincia di Cremona. Non ebbe tempo di trattenersi a San Secondo Parmense, alla corte dei Rossi di San Secondo, dove invece dovette essere ospite qualche anno prima, realizzando un poderoso Ritratto di Pier Maria Rossi di San Secondo e forse abbozzando soltanto quello della moglie, completato poi da qualcun altro.
Qui nell'aprile scrisse la famosa lettera a Giulio Romano, che lo esortava a rinunciare all'incarico di fornire disegni per l'abside della Steccata, in quanto tale lavoro poteva completarlo benissimo lui e ottenere quei trecento scudi che gli sarebbero spettati, in nome di una solidarietà tra artisti. Fece accompagnare la missiva da un suo fidato "amichissimo", il quale, come ebbe e scrivere Giulio Romano stesso nella sua lettera di rifiuto dell'incarico ai confratelli dell Steccata, era "molto arrogante con una gran chiacchiera et parlava per geroglifici et molto devoto del detto Francesco et sviscerato et meglio c'uno advocato sapeva difendere le sue ragioni et confonder quelle de le signorie vostre. In modo a quello c'io potei comprendere par che ne poteria sequir scandalo, la qual cosa molto aborisco maximamente perché in questo guadagnuzzo non li ha da esser mia ricchezza..."
Per sopravvivere l'artista dipinse per la chiesa locale una Pala oggi a Dresda, dove domina un irreale silenzio tra i partecipanti e con colori spenti e irreali, che venne completata, compresi gli accurati studi su carta, entro i cinque mesi scarsi che passò nella cittadina. Stando a quanto riporta Vasari ebbe tempo anche di dipingere una Lucrezia romana, opera dalla bellezza della statuaria classica, oggi a Napoli.
Il 5 agosto 1540 infatti, durante l'estate che si può immaginare torrida, l'artista si ammalò, forse di malaria, e fece testamento, lasciando eredi i suoi tre servitori ancora minorenni, che erano forse anche suoi aiutanti nell'arte, e 100 scudi alla sorella Ginevra.
Preso da "una febbre grave e da un flusso crudele" (Vasari) nel giro di qualche settimana morì, "et a questo modo pose fine ai travagli di questo mondo, che non fu mai conosciuto da lui se non pieno di fastidii e di noie".
Fu sepolto nella chiesa dei Serviti nei dintorni di Casalmaggiore, nudo con una croce d'arcipresso sul petto in alto come da lui disposto, secondo l'uso francescano. Dal 1846 ivi è ricordato da una lapide, posta nella seconda cappella a sinistra.