Primogenito di Sigismondo di Carlo e della nobile veneziana Cecilia Mocenigo, nacque nel 1696, probabilmente nel castello avito di Villalta, e fu subito immesso in un'atmosfera satura d'odio, ribollente di violenza. La sua famiglia, infatti, da tempo oltrepassati i confini dell'usuale prepotenza nobiliare, ha, con sanguinosi delitti, varcata la soglia del crimine.
Poco edificante, sullo sfondo, l'ombra del nonno paterno, Carlo di Sigismondo: prevaricatore nell'esercizio della carica di capitano di Trieste e Gorizia, ove protegge, con smaccata parzialità, le malefatte di nobili amici, assassino d'un conte Petazzi di Trieste suo rivale, viene rinchiuso, nel luglio del 1671, nella fortezza dello Schlossberg di Graz - per aver sedotto e rapito la moglie d'un alto dignitario imperiale e forse, anche, perché sospettato d'adesione alla congiura dei conti Zrinyi, Tattenbach e Nádasdy - per morirvi il 5 marzo 1689.
Peggio di lui, se non altro perché la loro malvagità, è più meschina, se non altro perché privi di quel che di sinistramente tragico avvertibile in Carlo, i tre figli, Sigismondo padre di Lucio e Lucio e Girolamo suoi zii, tutti e tre dediti alle braverie e alle sopraffazioni. Il primo - ciambellano e consigliere intimo di Leopoldo I, maresciallo ereditario della contea di Gorizia e di quella di Gradisca, maggiordomo della provincia del Cragno, credenziere ereditario del ducato di Carinzia - dopo una lunga sequela di misfatti (a Udine, per avere una miglior vista, abbatte delle misere case di mercanti; e lo stesso pretende di fare, incontrando, però, resistenza a danno dei nobili Caimo) viene dichiarato, il 9 ag. 1697, "bandito", pena, in caso di trasgressione, il taglio della testa, da una sentenza del Consiglio dei dieci, il terzo, assassino impunito d'un ortolano, vive asserragliato nel castello di Spessa, nel Goriziano, spadroneggiando con una banda d'aderenti; in gara con loro in fatto di soperchierie il secondo, il quale, morendo precocemente a Udine, li aizza l'un contro l'altro per la spartizione dell'eredità.
Smanioso di metter mano su tutto il cospicuo patrimonio - costituito da molte terre e stabili e soprattutto dalle giurisdizioni friulane di Villalta, Ciconicco, San Vito di Fagagna e Cargnacco - e non pago delle sole giurisdizioni di Spessa e Sarcina nel Goriziano, Girolamo vede in Sigismondo l'ostacolo alla sua ossessiva aspirazione, "la facoltà" familiare "tutta cadesse nella sola sua discendenza". E già gravissimi "disgusti" erano sorti quando questi, contro la volontà di quello, s'era accasato con la Mocenigo, avendone, oltre al Lucio, anche, nel 1697, Carlo, e scalzando, così, ogni fondamento alle pretese del primo. Incapaci i due d'un accordo ragionevole, il godimento pro indiviso dei beni è causa di continue frizioni, incentiva l'esasperarsi dei rancori. Furibondo soprattutto, nell'odio, Girolamo, che, il 15 nov. 1699, s'introduce con dei complici, di soppiatto e nottetempo, nel castello di Villalta, ove risiede Sigismondo, e, sorpresolo, fa sparare e spara contro di lui. Ed è un'archibugiata di Girolamo che colpisce Sigismondo alla "coscia dritta", sicché, "mortalmente ferito", lo sventurato muore di lì ad otto giorni, a Cargnacco (dove la moglie l'ha fatto trasportare per curarlo; ma corre voce il chirurgo, corrotto dai denari di Girolamo, si sia dato da fare in senso contrario), mentre, il 28 maggio 1700, sul fratricida s'abbatte la sentenza del Consiglio dei dieci che lo dichiara, pena il taglio della testa, bandito e ne destina i beni alla "confiscatione".
Spettatore d'un episodio atroce, il Lucio deve esserne rimasto dapprima traumatizzato e, in ogni caso, indelebilmente segnato. Precocissimi si scatenano in lui gli istinti peggiori. Invano la madre, nell'angoscia di sottrarlo all'influsso nefasto dei luoghi e delle memorie, lo colloca dodicenne, col fratello Carlo, presso i gesuiti a Venezia.
Il fanciullo si rivela subito insofferente di qualsiasi disciplina, riottoso a qualsiasi applicazione, indifferente a qualsiasi materia di studio. Impossibile trattenerlo in collegio che abbandona non ancora adolescente per tuffarsi, sfrenato e ingordo, nei divertimenti e nei piaceri che Venezia offre prodiga a chi sia, come egli è, avvenente d'aspetto, robusto di costituzione e fornito di denaro. Ma, per quanto allettante e varia, la cornice lagunare non l'appaga del tutto. Destro negli esercizi ginnici, provetto nell'equitazione, abile nel maneggio delle armi e buon schermidore, il Lucio ha bisogno di spazio per la sua prorompente fisicità da sfogare in galoppate, nella caccia. Violento e prepotente gli occorrre altresì un ambiente in cui spadroneggiare senza impacci. Idoneo a tutto ciò il castello di Villalta, donde, spalleggiato da prezzolati manigoldi, quasi a gara coi cugini, i figli cioè dell'assassino di suo padre, incrudelisce su villici tremebondi, schiamazza di notte nei borghi, minaccia, atterrisce, estorce e ricaccia, a suon di bastonate, i timidi conati di protesta dei parenti delle ragazze sedotte o addirittura stuprate. È lungi dalla capitale che l'adolescente protervo assapora l'ebbrezza dell'arbitrio dispotico e prevaricatore, che s'abbandona ad una cattiveria sistematica, assidua, torbidamente venata di gratuito sadismo. Torvo il suo sembiante, non omologabile ai malvezzi d'una nobiltà neofeudale incarognita. C'è un che di tremendo nel suo imperversare nel contado: smodata, ulteriore, torbida la sua pur ottusa ferocia.
Spaventata, la madre s'illude d'attenuarla dandogli al più presto moglie. Donde le nozze, del 29 marzo 1712, con Eleonora, figlia del conte Giovanni Enrico di Madrisio (forse lo stesso che, con altri cavalieri, partecipa all'ambasciata d'omaggio del Parlamento friulano del 29 maggio 1676: Un'ambasciata ... del Friuli a Venezia, per nozze F. Fior-R. Levis, Milano 1890 p. 13), castellano di San Martino del Friuli. Ma il matrimonio con una giovinetta mite e remissiva non si rivela un buon palliativo, anzi lo irrita, lo infastidisce, l'esaspera. Ché - mentre la madre muore a Pordenone, nella "nobile e deliziosa dimora" abitata spesso da Lucio e dal fratello, si sospetta per veleno propinatole dal figlio - egli si rivela sgarbato, brutale, manesco anche nella vita coniugale. E, sorpresa la moglie mentre, col figlioletto Carlo al collo, si lamenta piangente di lui con un prete, le si scaglia addosso con un bastone; e, poiché questa si schiva istintivamente, il colpo, a lei destinato, finisce, fracassandola, sulla testa dell'infante. Né si pente d'aver ucciso il figlio, solo infastidito dal pianto disperato della moglie.
Truculento criminale tra le pareti domestiche, il Lucio lo è pure al di fuori. Si è ormai trasformato da ragazzino sfrenato in malvivente precocemente incallito e, pure, in capo d'una vera e propria delinquenza organizzata. Il suo "reprobo e scellerato costume di vita" - così con sdegno il Consiglio dei dieci - assume un piglio imprenditoriale assurgendo ad autentica minaccia pubblica, ché accumula "delitti" su "delitti", perpetua, specie nel Pordenonese e nella zona di Noale ove aveva un palazzo, "violenze gravi contro la vita e sostanze dei sudditi".
Radunata attorno a sé un'accozzaglia di loschi figuri, di banditi, di malviventi abituali, di sicari la trasforma da masnada raccogliticcia in un piccolo esercito personale: dispone, così, di circa quattrocento "sgherri", con una sorta di divisa (un cappello a larghe falde con coccarda verde, con tracolla pure verde e con distintivi neri), obbedienti ad ogni suo cenno. In tal modo la violenza sul territorio si fa, da episodica, continuato e redditizio taglieggiamento. Il D., capobanda ventenne, può ostentare, con immane "ambizione", un'"autorità" che, come rileva orripilato il Consiglio dei dieci, si contrappone a "quella vera e venerabile" della Repubblica. La "prepotenza" si abbiglia da "abusiva autorità" rilasciante "spurie patenti" e "bollettini colla propria sottoscrizione e sigillo". In totale dispregio dei "dazi", il D. sovrintende a un contrabbando orchestrato su larga scala: donde le bastonature "fieramente" elargite agli "uffiziali di Mestre" che cercano d'impedirlo. Si aggiungono, da parte del D., l'imposizione di pedaggi e permessi di transito ai "passadori dei fiumi", la concessione di "biglietti di licenze d'armi", l'imperioso ordine a "bottegai" e "osti" di fornire "carne, sale, pane ed altro" il cui pagamento, se c'è e quando c'è, viene fissato a suo "arbitrio". Un'intollerabile "alterigia", una "crudeltà" macchiata da una sequela d'"abominevoli violenze" proprie, per di più, di chi, come il D., risulta "debitore di grossissime somme" all'Erario nell'ostinato rifiuto di corrispondere "decime ed altre gravezze".
Tardive vengono, nel 1716 (nello stesso anno in cui il teologo agostiniano Carlo Giuliano Ferrucci, rievocando i fasti passati e presenti dei Della Torre, definisce "cavaliere ornato di rare virtù" l'ammazzato padre del D., effigia lo zio fratricida del D. come tranquillo redditiero che "vive felicemente" e, quanto al D., l'assicura "cavaliere ... di giovanile età" che "nudrisce spiriti ponto degeneranti da quelli de suoi più che illustri antenati": e, sorvolando sul fatto che il D. ha ammazzato il suo primogenito, la penna del frate fa diventare tale il secondogenito Sigismondo, definito, appunto, "figlio maschio comparso al primo parto alla luce"), scagliate contro di lui due sentenze, una, del 20 aprile, del Consiglio dei dieci, l'altra, del 15 ottobre, del rettore di Treviso. Ulteriore malefatta, quanto mai scandalosa agli occhi del Consiglio dei dieci, la tresca imbastita dal D. con una "donna civile" (la bellissima Rosalba, moglie d'un cancelliere degli Esecutori contro la bestemmia), ch'egli, dopo aver svuotato la casa del consorte delle gioie e degli effetti personali, induce a fuggire con sé suscitando "scandalo ed universal mormorazione". Non basta: incurante delle "duplicate sentenze" a suo carico, il D., temerario e beffardo, compare più volte a Venezia "con seguito numeroso di satelliti tutti armati come lui d'arme da fuoco", ove frequenta varie donne disponibili e bazzica, galante, con monache.
Sprezzante e superba sfida all'autorità dello Stato soprattutto la sfacciata riapparizione in città per il carnevale del 1717, quando, "a bella posta", si toglie la "maschera" nel "ridoto ed in altri luoghi pubblici", determinato ad "esser ben conosciuto" e ravvisato da tutti. A tal fine sbalordisce, il giovedì grasso, la folla di piazza S. Marco esibendosi su di un calesse trainato da sei cavallini croati. Una sfacciata provocazione che conia sull'impotenza della giustizia, una tracotanza senza più limiti, una baldanzosa certezza d'impunità e, insieme, una clamorosa manifestazione di spregio. Il D. "quasi" attribuisce - osservano i Dieci, così ammettendo che essa, la giustizia dello Stato, è titubante, non osa schiacciare una così flagrante irrisione - "alla propria forza o sagacità" quanto è, invece, "effetto della prudenza e delle congiunture", come, eufemisticamente, i Dieci definiscono l'assenza d'un atto esecutivo.
Dopo di che, soddisfatto, il D. ripara a Pordenone, quindi, a Udine; e in quel territorio prosegue nell'"uso dannato delle sue odiosissime estorsioni" e delle sue detestabili soperchierie. Ovunque passa lascia le "orme dolorose delle ... rapine praticate" sotto gli occhi delle autorità. L'"accompagnamento sempre numeroso di sicari" gli garantisce l'accumulo delle "sostanze de' poveri venditori non pagate". Bruciante schiaffo per la legge tale "piena licenziosità di vivere", cocente umiliazione per i rappresentanti dello Stato la sfrontata impudenza del suo incedere pubblicamente con "numeroso spaventevole accompagnamento" di scherani con le armi da fuoco sempre "scoperte". Si giunge al punto che, a Udine, al passaggio d'una "processione votiva" - cui prendevano parte il luogotenente, prelati, "deputati", nobili - davanti al suo palazzo, gli uomini al suo servizio si schierano "in forma di spalliera" lungo la facciata, con le armi spianate. Né l'ormai certa demolizione di questo - paventando la quale, il D., ancora nel 1715, aveva tentato, con astuzia truffaldina, di venderlo a dei parenti - piega l'"abbominevole impudenza" del D.; anzi, la sua "scandalosa audacia" è indotta ad escogitare ulteriori provocazioni. La sua "scelleraggine" agogna alla sfida diretta, non si perita, perciò, di "provocare tutti i maggiori fulmini della pubblica potestà". Dapprima si porta a Noale coi suoi molti "patentati", quindi, la sera del 10 giugno 1717, presso Treviso, installandosi "all'osteria della fiera", donde caccia "a viva forza" il "capitano di campagna" che, sorpreso da un diluvio di pioggia, v'aveva cercato rifugio con la sua minuscola "squadra di soldati". Né manca di redarguirlo aspramente per aver osato "presentarsi mentre vi era lui Lucio".
L'indomani, sempre coi suoi, il D. raggiunge Padova e qui si diverte, con la sua carrozza tirata da sei cavalli, a tagliare la strada alle altre, mentre l'"infame comitiva" d'una quarantina di sgherri che l'accompagna, dopo aver schiamazzato e provocato, si dispone a mo' di guardia di fronte al suo temporaneo alloggio nel "borgo di S. Croce", ove, con suo dispetto, stanzia "qualche numero di soldati". Il 16 giugno il D. esce dall'abitazione in assetto di guerra, coll'"armatura di ferro", con l'archibugio in pugno, la pistola al fianco, attorniato dai ceffi del seguito, tutti armatissimi. Sembra deciso ad "attaccare la casa ove erano alloggiati i soldati". L'accoglie, però una scarica di fucileria, cui i suoi prontamente replicano. Si scatena, per un quarto d'ora, in piena città una furibonda sparatoria, nella quale il D. ha la peggio: colpito a morte uno dei suoi bravacci, feriti altri due che poi saranno impiccati in piazza delle Erbe, in fuga tutti gli altri. Ferito lo stesso D., che si sottrae alla cattura riparando, vestito da benedettino, a Villalta e quindi mettendosi al sicuro "fuori dello Stato" veneto. Per sua disgrazia questa volta la Repubblica mostra il suo volto più severo. Terribile e definitiva la condanna, del 17 luglio, del Consiglio dei dieci, che lo bandisce da tutto il territorio della Serenissima; se, "rompendo il confine", vi sarà catturato, gli verrà "tagliata la testa", in piazza S. Marco, "tra le due colonne". Di 2.000 ducati la taglia pei suoi auspicabili "captori" o "interfettori", in terra veneta, di 4.000 per quelli "in terre aliene". Confiscati tutti i suoi "beni mobili e stabili", i cui proventi vanno anzitutto destinati al risarcimento degli innumeri "particolari" da lui "danneggiati". Destituito, inoltre, dal "titolo di conte" e da "qual si sia altro nobile titolo". "Demolita", infine, e "spianata" - sarà lo stesso luogotenente Giovanni Sagredo a dare i primi colpi di piccone - la sua elegante dimora udinese (il palazzo già Marchesi) ed eretta, al suo posto, una colonna (che verrà, peraltro, abbattuta la notte del 28-29 luglio 1797) con iscrizione a sua perpetua infamia, a sua indelebile ignominia.
A nulla vale che il D., da Gorizia, dove s'è sistemato con la bella Rosalba, supplichi il perdono, piagnucoli tirando in ballo la compassione dovuta all'"abbandonata consorte", all'"abbandonata prole". Non gli resta che acconciarsi alla vita dell'esule. Senza più bravi attorno, senza più entrate, senza più proventi d'estorsioni, un po' vive coi soldi che gli manda il suocero, un po' s'ingegna e persino s'impiega nella "compreda" del fisco. Ma il lavoro non gli si addice e ben presto l'abbandona. Lasciato da Rosalba, intreccia relazioni con donne d'ogni età e condizione, sempre destro nel carpire alle più abbienti gioie ed ori. Malvisto perciò a Gorizia, si trasferisce a Tolmino, anche qui distinguendosi per scapestraggine e aggressiva intraprendenza d'instancabile donnaiolo. Stando ad un suo anonimo biografo - un contemporaneo certo udinese e con tutta probabilità ecclesiastico - questa è così incontrollata che "molte femmine di alta e bassa sfera" restano incinte del D., assai inviso perciò agli abitanti del piccolo centro. Più opportuno per lui approfittare dell'ospitalità offertagli dal parente conte Rizzardo Strassoldo (era questi fratello di sua suocera Elisabetta di Strassoldo) che vive nel castello di Farra con la moglie Mariana Malvicchia (osteggiatissime, a suo tempo, le nozze con questa ché di umili natali, al punto che il fratello Marzio aveva tentato d'ammazzarlo a colpi d'archibugio venendo, perciò, bandito; Marzio Strassoldo, comunque, dopo aver militato al servizio di Luigi XIV, sarà poi perdonato dall'imperatore che lo nominerà capitano di Trieste) e due figli adolescenti, Niccolò e Ludovica.
Ospite privo di scrupoli, il D. dapprima seduce la moglie, quindi preferisce alle sue mature attrattive le più fresche grazie della figlia che incautamente mette incinta. Grande, nell'apprenderlo, l'angoscia della madre, pericolosa per il D. l'ira del fratello che esige nozze riparatrici. C'è l'inconveniente che il D., il seduttore, è sposato con Eleonora, cugina, tra l'altro, di Ludovica. Donde la decisione - da lui condivisa - di sbarazzarlo della moglie, sì che possa convolare a legittime nozze con Ludovica. Rapida la concertazione delle modalità dell'assassinio. Niccolò Strassoldo, con una domestica sua amante, tale Orsola Sgognico, si reca, il 2 febbr. 1722, a Noale, ove abita coi figli Eleonora, la moglie del D., accoltovi di buon grado da questa, lieta d'avere notizie del marito. Dopo qualche giorno di permanenza, l'8 febbraio, Niccolò Strassoldo penetra nella stanza d'Eleonora e le fracassa il cranio col calcio d'una pistola. Quindi fugge precipitosamente con l'amante a Farra.
Scoperto il delitto, è agevole risalire all'autore e ai complici. Fremente di sdegno per l'"iniquo assassinio", il Consiglio dei dieci, il 16 marzo, a conclusione d'un processo in contumacia, emette sentenza di bando capitale contro la "perfida e malvagia persona" del D., il suo "cugino carnale" esecutore materiale del delitto e la sua complice Orsola Sgognico detta "Gurissizza", tutti e tre "absenti, ma legitimamente citati". Quanto alla "casa dominicale posta in Noale, nella quale fu' eseguito l'…enorme omicidio", i Dieci ordinano venga "demolita da' fondamenti" coll'erezione, al suo posto, d'una colonna (anche questa sarà abbattuta nel 1797) ove siano "scolpite" le "parole" a ricordo della "proditoria commissione" del D. "d'omicidio" per mano degli altri due. Sensibile alle pressanti insistenze veneziane di esemplare punizione la corte viennese, ove pessima è la fama del D. che è già stato relegato per quattro mesi di prigione nel castello di Lubiana per aver deflorato la figlia d'un barone imperiale di Klagenfurt. Anche a Vienna, dunque, s'è decisi a stroncare una volta per tutte le sue malefatte, tanto più che l'uccisa, la sventurata Eleonora, è nipote di Giovanbattista Colloredo, rappresentante cesareo a Venezia. Non appena diffusasi la notizia dell'atroce episodio, il capitano di Gradisca tenta, con trenta uomini, la cattura, venendo, però, respinto con tre soldati gravemente feriti. Giunge sollecito - così un'informazione, del 20 febbraio, di tal Mattia Moro, forse capo del bargello di Udine - "un rinforzo di 150 soldati con 8 pezzi di cannoni". Si rinnova così, con più lena, l'assalto al castello di Farra che, dopo tre "notti" e due "giorni" d'assedio, s'arrende. Vengono tradotti in prigione a Gradisca il D. e l'assassino con la madre, la sorella e l'amante di questo, "Gurissizza".
Durante il processo il D. tenta in un primo tempo di scaricare ogni responsabilità su Niccolò Strassoldo e sua madre e non mancano "qualificati cavalieri di Gorizia" che lo reputano "innocente", convinti l'"infame risoluzione" sia soprattutto di Niccolò spinto all'"attroce omicidio" dalla volontà di derubare la povera Eleonora. Ma è una tesi che non persuade i giudici i quali sono concordi nell'attribuire al D., a Marianna Strassoldo, a suo figlio la concertazione del delitto, mentre è pacifica la diretta responsabilità di quest'ultimo nell'eseguirlo con le proprie mani. S'alleggerisce, invece, la posizione di Ludovica e di "Gurissizza", più passive spettatrici della malvagità dei primi tre che attivamente complici. E sono, infatti, solo questi tre i condannati, con sentenza che giunse a Gradisca il 26 giugno 1723, dopo essere stata sottoscritta il 16 dall'imperatore Carlo VI, al pubblico supplizio. Il 3 lluglio 1723 avviene a Gradisca l'esecuzione.
Il D. (al quale, all'ultimo, per disposizione di Vienna, si risparmia la ruota), ricevuta l'assoluzione, durante la quale sembra più schiacciato dal rimorso della sua nequizia che atterrito della mannaia del boia, viene decapitato; tagliata la testa anche a Marianna Strassoldo cui è stata precedentemente inflitta "una tanagliata nel braccio dritto"; ma è soprattutto su Niccolò che la liturgia dell'esecuzione incrudelisce ché dapprima gli si taglia la destra, poi lo si attanaglia due volte e, infine, gli viene recisa, assieme alla mano sinistra, la testa. Quanto alla sua amante, le si impone di assistere a tutte e tre le decapitazioni e quindi di servire, per un anno, con la catena al piede, nell'ospedale della fortezza gradiscana. Alla giovane Ludovica, da poco madre del figlio del D., essendo caduta in deliquio, si risparmia lo spettacolo della morte dell'amante, del fratello, della madre. Sarà poi rinchiusa in un convento e il "tenero infante" da lei partorito verrà affidato ad una "levatrice" e vivrà, poi, grazie ad una modesta sovvenzione della corte. Nel frattempo la Serenissima, in un sussulto di concomitante severità, condanna al bando il fratello del D. Carlo e i suoi cugini figli di Girolamo, l'assassino di suo padre, nella speranza di por fine ai loro soprusi e alle loro bravate. Certo che la decapitazione del D. macchia l'onorabilità di tutti i Della Torre, anche quelli con cui i vincoli di parentela sono pressoché inesistenti. Fatto sta che, giunto Carlo VI a Gorizia, nella messa solenne del 5 sett. 1728, essi non hanno l'usuale onore di precedere l'imperatore con lo spadone in mano.
Dei due figli legittimi del D., Cecilia si sposa col cividalese Riccardo de Portis e Sigismondo, che nasce nel 1715 a Pordenone e ivi muore nel 1804, grazie al suo encomiabile comportamento concomitante col farsi strada d'una diversa sensibilità giuridica per cui i figli non devono scontare le colpe dei padri, avrà la possibilità di recuperare dei beni e d'essere fregiato dei titoli.