Carlo Alberto Emanuele Vittorio Maria Clemente Saverio di Savoia-Carignano fu Re di Sardegna e Principe di Piemonte dal 27 aprile 1831 al 23 marzo 1849. Fu inoltre, tra gli altri titoli, principe di Carignano, duca di Savoia e di Genova e conte di Barge.
Durante il periodo napoleonico visse in Francia dove acquisì un’educazione liberale. Come principe di Carignano nel 1821 diede e poi ritirò l’appoggio ai congiurati che volevano imporre la costituzione a re Vittorio Emanuele I di Sardegna. Divenne conservatore e partecipò alla spedizione legittimista contro i liberali spagnoli del 1823.
Non destinato al trono, diventò re dello Stato sabaudo nel 1831 alla morte dello zio Carlo Felice che non aveva eredi.
Da sovrano, dopo un primo periodo conservatore durante il quale appoggiò vari movimenti legittimisti d’Europa, nel 1848 aderì alle idee ispirate ad un’Italia federata guidata dal Papa e libera dagli Asburgo. Nello stesso anno concesse lo Statuto Albertino, la carta costituzionale che rimarrà in vigore (prima nel Regno di Sardegna e poi nel Regno d’Italia) fino al 1947.
Guidò le forze che portarono alla prima guerra di indipendenza contro l’Austria, ma, abbandonato da papa Pio IX e Ferdinando II di Borbone, nel 1849 fu sconfitto e abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele. Morì in esilio qualche mese dopo nella città portoghese di Oporto.
Il suo tentativo di liberare l’Italia settentrionale dall’Austria rappresentò il primo sforzo dei Savoia di mutare gli equilibri della penisola dettati dal Congresso di Vienna. L’opera sarà ripresa con successo dal figlio Vittorio Emanuele che diverrà il primo re d’Italia.
Carlo Alberto ebbe diversi soprannomi, fra cui Italo Amleto, assegnatogli da Giosuè Carducci per il suo carattere cupo, conflittuale ed enigmatico. Ebbe anche l'appellativo di Re Tentenna, perché oscillò a lungo tra la firma dello Statuto e le influenze del suo passato da reazionario.
Carlo Alberto nacque a Palazzo Carignano a Torino, figlio di Carlo Emanuele e Maria Cristina Albertina di Sassonia. Venne tenuto a battesimo il giorno dopo della nascita dal re di Sardegna Carlo Emanuele IV e dalla consorte, la regina Maria Clotilde di Borbone.
Carlo Alberto era il settimo principe di Carignano, il ramo cadetto dei Savoia discendente dal capostipite Tommaso Francesco. Non appartenendo al ramo principale della dinastia, al momento della nascita, le sue possibilità di salire al trono erano molto basse. Benché infatti re Carlo Emanuele IV non avesse figli, alla sua morte il trono sarebbe passato al fratello Vittorio Emanuele e, in subordine, al figlio di quest’ultimo, Carlo Emanuele. In ordine di successione seguiva poi un secondo fratello di Carlo Emanuele IV, Maurizio Giuseppe e poi ancora un altro fratello, Carlo Felice. Ma nel 1799, e cioè un anno dopo la nascita di Carlo Alberto, morirono 2 dei 4 esponenti di casa Savoia che lo precedevano nella successione: il piccolo Carlo Emanuele (di vaiolo a 3 anni) e Maurizio Giuseppe (di malaria, in Sardegna).
Il padre di Carlo Alberto, Carlo Emanuele di Carignano, aveva studiato in Francia ed era stato ufficiale nell’esercito francese. Simpatizzante delle idee liberali, si trasferì a 27 anni a Torino, da dove re Carlo Emanuele IV a causa dell’invasione napoleonica del 1796 partì per l’esilio. Carlo Emanuele di Carignano, assieme alla moglie Maria Cristina Albertina, aderirono invece alla causa napoleonica. Nonostante ciò i due furono tradotti a Parigi dove, sospettati, vennero tenuti sotto sorveglianza e costretti a vivere quasi in miseria in una casa nei sobborghi. Qui iniziarono a crescere i loro figli: Carlo Alberto e Maria Elisabetta, nata il 13 aprile 1800.
Il 16 agosto dello stesso anno, Carlo Emanuele di Carignano morì improvvisamente. La madre di Carlo Alberto si trovò così sola, alle prese con i francesi che non avevano alcuna intenzione di riconoscerle meriti, titoli o proprietà. D'altronde ella rifiutò l’invito dei Savoia ad affidare loro il figlio per educarlo secondo i canoni conservatori. Nel 1808, Albertina si sposò in seconde nozze con Giuseppe Massimiliano Thibaut di Montléart, con il quale Carlo Alberto ebbe un pessimo rapporto.
All'età di 12 anni Carlo Alberto e la madre furono finalmente ricevuti da Napoleone Bonaparte, che conferì al ragazzo il titolo di conte e una rendita vitalizia. Non essendo più opportuno farlo studiare a casa, nel 1812 il giovane entrò nel collegio San Stanislao (Collège Stanislas) a Parigi. Alla scuola rimase due anni, ma più che frequentare andava periodicamente a sostenere gli esami, sembra con profitto. Intanto Albertina si era trasferita a Ginevra, dove condusse Carlo Alberto che, dal marzo 1812 al dicembre del 1813, fu affidato al pastore protestante Jean-Pierre Etienne Vaucher (1763-1841), ammiratore di Jean-Jacques Rousseau.
Alla sconfitta di Napoleone alla battaglia di Lipsia nell’ottobre 1813, la famiglia lasciò Ginevra nel timore dell'arrivo degli austriaci e tornò in Francia. Ai primi del 1814 Carlo Alberto entrò nel liceo militare di Bourges, aspirando a diventare ufficiale dell’esercito francese. Aveva quasi 16 anni.
Uscito di scena definitivamente Napoleone, il 16 maggio 1814 il nuovo re Luigi XVIII di Francia festeggiò a Parigi il ritorno dei Borbone. Tra i presenti alla gran festa, la principessa Maria Cristina Albertina di Carignano con i figli Carlo Alberto ed Elisabetta. Nonostante il suo passato, la famiglia fu accolta bene, ma Carlo Alberto dovrà rinunciare al titolo di conte dell’Impero, al grado di tenente appena conferitogli al liceo militare di Bourges e, soprattutto, al vitalizio concessogli da Napoleone.
Ristabilita la pace in Europa era opportuno che Carlo Alberto tornasse a Torino, così come gli consigliò il conte Alessandro di Saluzzo, suo tutore. Anche Albertina se ne convinse e il giovane lasciò Parigi (e il suo patrigno) per giungere a Torino il 24 maggio. Qui fu accolto affettuosamente dal re Vittorio Emanuele I (Carlo Emanuele IV aveva abdicato nel 1802) e dalla consorte Maria Teresa d'Asburgo-Este. Gli vennero restituiti i suoi beni e il suo appannaggio e gli fu affidata la residenza di palazzo Carignano. Data la situazione familiare (né Vittorio Emanuele I né il fratello Carlo Felice avevano figli maschi) Carlo Alberto era ora l’erede presuntivo al trono.
Per questo gli fu assegnato un precettore che correggesse le sue idee liberali: dapprima il conte Filippo Grimaldi del Poggetto, religiosissimo, e poi, quando questi fallì, il cavaliere Policarpo Cacherano d'Osasco. Costui, benché fosse più adatto al compito, si accorse ben presto di non poter influire sulla mentalità e sul carattere di Carlo Alberto che in questo periodo venne riconosciuto per la prima volta sofferente di nervi.
Per dare un equilibrio interiore al principe la corte sabauda pensò fosse venuto il momento del matrimonio. La prescelta, che Carlo Alberto accettò, fu la sedicenne Maria Teresa d'Asburgo-Lorena, figlia del granduca Ferdinando III di Toscana e parente della regina di Sardegna Maria Teresa d'Asburgo-Este. Il principe partì quindi per la Toscana e per Roma il 18 marzo 1817 e dopo 6 mesi di fidanzamento, il 30 settembre, furono celebrate le nozze a Firenze, in Santa Maria del Fiore.
Il matrimonio solenne fu seguito da un ballo organizzato dall'ambasciata piemontese a Firenze. Da qui il 6 ottobre la coppia partì alla volta del Piemonte. L'11 gli sposi giunsero al castello del Valentino da cui fecero il loro ingresso solenne a Torino.
La giovane Maria Teresa era timidissima e molto religiosa; i due abitavano a palazzo Carignano e Carlo Alberto, di altro temperamento, iniziò ad invitare i giovani intellettuali con cui condivideva le idee liberali. I più intimi erano Santorre di Santa Rosa, Roberto d’Azeglio, Giacinto Provana di Collegno, Cesare Balbo, Guglielmo Moffa di Lisio (1791-1877) e Carlo Emanuele Asinari di San Marzano (1791-1841).
Dalla personalità complessa, Carlo Alberto in questi anni attraversò anche una profonda crisi religiosa. Ne fu artefice l’amicizia con il diplomatico francese Jean Louis de Douhet d'Auzers e la visita che il principe fece a Roma nel 1817 all’ex sovrano Carlo Emanuele IV ritiratosi in convento. Negli anni successivi al matrimonio, tuttavia, Carlo Alberto ebbe alcune relazioni extraconiugali, fra le quali quella con Maria Carolina di Borbone, vedova del duca di Berry[15].
Né i rapporti con Maria Teresa languivano, poiché quest’ultima dopo un aborto e un incidente di carrozza che nell’estate del 1819 poteva compromettere la seconda gravidanza, il 14 marzo 1820 diede alla luce l’erede, Vittorio Emanuele, futuro primo re d’Italia.
A seguito dei moti di Cadice del 1820 re Ferdinando VII di Spagna fu costretto a riconcedere la costituzione del 1812. In molti Stati europei si accese così la speranza di ottenere analoghe concessioni dai rispettivi sovrani. Moti insurrezionali scoppiarono a Napoli e Palermo. Il 6 marzo 1821, Santorre di Santarosa, Giacinto Provana di Collegno, Carlo di San Marzano e Guglielmo Moffa di Lisio (tutti militari, funzionari o figli di ministri) e Roberto d’Azeglio incontrarono Carlo Alberto.I giovani liberali erano pronti ad agire ed avevano identificato nel Principe l’uomo nuovo di Casa Savoia, colui che avrebbe rotto con un passato di assolutismo.
I congiurati non avevano intenzione di attentare alla dinastia sabauda, ma anzi di favorirla, costringendola a concedere riforme che avrebbero dato al sovrano la gratitudine del popolo. Durante i mesi della preparazione Carlo Alberto aveva assicurato il suo appoggio e così fece anche quella sera, dichiarandosi favorevole all’azione militare. Si trattava infatti di far sollevare le truppe, circondare il castello di Moncalieri dove dimorava re Vittorio Emanuele I e imporgli di concedere la costituzione, nonché di dichiarare guerra all’Austria. Il ruolo di Carlo Alberto sarebbe stato quello di mediatore fra i congiurati e il sovrano.
Ma la mattina del giorno dopo, il 7 marzo, Carlo Alberto ci aveva ripensato e ne informò i cospiratori. Inoltre convocò il ministro della Guerra Alessandro Di Saluzzo dichiarando di aver scoperto un complotto rivoluzionario. Fu un tentativo di sganciarsi dalla congiura che, tuttavia, continuò ad incoraggiare il giorno dopo, in occasione di un’altra visita di Santarosa e San Marzano. Costoro però si insospettirono e diedero disposizioni per annullare l’insurrezione che doveva scoppiare il 10. Lo stesso giorno Carlo Alberto, completamente pentito, corse a Moncalieri da Vittorio Emanuele I svelandogli ogni cosa e chiedendo perdono. Ma la situazione precipitò: nella notte la guarnigione di Alessandria, comandata da uno dei cospiratori (Guglielmo Ansaldi), si era sollevata e si era impadronita della città. I rivoluzionari a questo punto, benché abbandonati dal Principe, decisero di agire.
Domenica 11 marzo 1821, re Vittorio Emanuele I riunì il Consiglio della corona del quale faceva parte anche Carlo Alberto. Quest’ultimo, assieme alla maggior parte dei presenti, si dichiarò d'accordo a concedere la costituzione. Si diffusero però notizie di un imminente soccorso armato austro-russo per ristabilire l’ordine in Italia. Il Re decise quindi di attendere, ma il 12 anche la cittadella di Torino cadde nelle mani degli insorti. Vittorio Emanuele I inviò allora Carlo Alberto e Cesare Balbo a trattare con i carbonari che rifiutarono ogni contatto con i due. Così, la sera, il Re, di fronte al dilagare della sollevazione militare, per non concedere la costituzione, abdicò in favore del fratello Carlo Felice, e poiché quest’ultimo si era ritirato a Modena fu nominato reggente Carlo Alberto.
Costui si trovò, così, a 23 anni, ad affrontare una grave crisi politica che lui stesso aveva contribuito a provocare. I vecchi ministri lo abbandonarono e fu costretto a nominare un nuovo governo: l’avvocato Ferdinando Dal Pozzo (1768-1843) al ministero dell’Interno, il generale Emanuele Pes di Villamarina alla Guerra e Lodovico Sauli d'Igliano agli Esteri. Cercò di trattare con i ribelli ma non ottenne nulla. Intimorito, si disse nell’impossibilità di prendere ogni decisione senza il consenso del nuovo re e, per questo, inviò a Carlo Felice una relazione sugli avvenimenti chiedendogli istruzioni. Ma non c’era più tempo, nel timore di diventare oggetto del furore popolare, la sera del 13 marzo 1821, Carlo Alberto firmò il proclama che annunciava la concessione della costituzione spagnola, con riserva dell’approvazione del Re.
Il giorno dopo, il reggente decise di formare una Giunta che avrebbe dovuto fare le veci del parlamento. La presiedeva il canonico Pier Bernardo Marentini (1764-1840). Nel governo, Villamarina fu sostituito al ministero della Guerra da Santorre di Santarosa, cioè il capo dell’insurrezione. Il 15 marzo, di fronte alla Giunta, Carlo Alberto giurò di osservare la costituzione di Spagna, la cui versione sabauda era stata emendata con alcune clausole pretese dalla consorte di Vittorio Emanuele I, Maria Teresa d'Asburgo-Este.
Nel frattempo arrivarono a palazzo Carignano i rappresentanti dei liberali lombardi: Giorgio Pallavicino Trivulzio, Gaetano Castiglia e Giuseppe Arconati Visconti. Costoro chiesero a Carlo Alberto di dichiarare guerra all’Austria per fare sollevare Milano, ma il Principe li disilluse. Egli accolse invece i consigli di Cesare Balbo: riportò la disciplina nelle forze armate, impedì eccessi e radunò le truppe fedeli al re Carlo Felice. Quest’ultimo accolse però malissimo la notizia dell’abdicazione del fratello, che considerò una «violenza abominevole» e, dal suo ritiro modenese, ordinò a Carlo Alberto di trasferirsi a Novara. Quanto alla costituzione spagnola, dichiarò nullo qualunque atto di competenza sovrana fatto dopo l’abdicazione del fratello.
A mezzanotte del 21 marzo 1821, Carlo Alberto lasciò segretamente palazzo Carignano. Soltanto l’indomani i rivoluzionari scoprirono la sua partenza. Da Rondissone il 23 si diresse alla volta di San Germano per proseguire da lì verso Novara, città che era rimasta fedele al Re. A Novara si fermò 6 giorni perché il 29 gli arrivò un dispaccio di Carlo Felice che gli ordinava di partire subito per la Toscana.
La mattina del 2 aprile 1821 il principe giunse a Firenze, dove il 13 fu raggiunto dalla moglie e dal figlio che intanto erano riparati in Francia. La famiglia si stabilì a palazzo Pitti, dal suocero del Principe, il granduca Ferdinando III. Il mese dopo, a maggio, Carlo Felice, che intanto aveva chiesto e ottenuto aiuto dall’Austria per ristabilire l’ordine, si incontrò a Lucca con l’ex re Vittorio Emanuele I. I due si intrattennero a lungo sulla condotta del nipote e, nonostante la nuova regina Maria Cristina avesse preso le sue difese, Carlo Alberto fu giudicato responsabile della cospirazione.
Avvilito e umiliato dai giudizi e dalle circostanze, il principe di Carignano decise di rinnegare le sue idee liberali, anche perché Carlo Felice stava valutando l’ipotesi di eliminarlo dalla linea di successione con l’intenzione di passare la corona a suo figlio Vittorio Emanuele. Sull’argomento il Re di Sardegna chiese l’opinione del principe di Metternich che, contrariamente alle sue attese, gli sconsigliò il passo.
La linea di successione di Carlo Alberto invece, dopo che il 16 settembre 1822 il piccolo Vittorio Emanuele era sfuggito all’incendio della sua culla, non correva più pericoli, grazie anche alla nascita, il 15 novembre, del secondogenito Ferdinando. Tranquillo per il lieto evento, Carlo Alberto a Firenze coltivò diversi interessi culturali. Era diventato collezionista di libri antichi, ma gli interessavano anche autori della sua epoca: si fece procurare le poesie di Alphonse de Lamartine e le opere del conservatore Joseph de Maistre.
All’inizio del 1823 il duca Louis Antoine d'Angoulême assunse il comando del corpo di spedizione francese a cui le potenze europee delegarono il compito di riportare sul trono re Ferdinando VII di Spagna catturato dai rivoluzionari spagnoli dopo i moti di Cadice. Carlo Alberto, che chiedeva di dimostrare il suo pentimento, chiese di far parte del contingente. Scrisse due volte a tale proposito a Carlo Felice, il 1° e il 20 febbraio 1823, ma ebbe il permesso di partire solo il 26 aprile.
Finalmente, il 2 maggio, a Livorno Carlo Alberto si imbarcò sulla fregata sarda Commercio che il 7 attraccò a Marsiglia. Il giorno seguente il Principe si mise in viaggio e, prima di arrivare a Boceguillas, che raggiunse il 18, fu assegnato alla divisione del generale francese Étienne de Bordesoulle (1771-1837). Il 24 giunse a Madrid, dove sostò fino al 2 giugno, per poi ripartire per il sud: all’attraversamento della Sierra Morena, in uno scontro a fuoco con il nemico, dimostrò coraggio e i francesi lo insignirono della Legion d'onore. Proseguì per Cordova, Utrera, Jerez de los Caballeros e El Puerto de Santa María, da dove aspettò l’ordine dell’assalto alla fortezza di Cadice, il Trocadero, ultimo rifugio del governo costituzionale spagnolo.
Alla fine di agosto del 1823, mentre la flotta francese proteggeva l’azione dal mare, le truppe assalirono il Trocadero. Carlo Alberto combatté alla testa delle truppe varcando il canale che costituiva l’unico punto da cui si poteva attaccare la fortezza. Entrò in acqua reggendo la bandiera del 6º Reggimento della Guardia reale, guadò il canale e balzò nelle trincee nemiche. Cercò di evitare che i prigionieri nemici fossero uccisi e, poiché si distinse da semplice granatiere, i soldati francesi gli offrirono le spalline di un ufficiale morto nell’assalto.
Restò sul posto fino al calare della notte e il giorno successivo fu tra i primi a penetrare nel Trocadero. Liberati, si compiacquero con lui il re di Spagna Ferdinando VII e la giovane regina Giuseppina, sua cugina, che gli gettò le braccia al collo. Il 2 settembre ci fu una grande parata militare, dopo la quale, davanti alle truppe schierate, il duca d'Angoulême decorò
Sciolto il corpo di spedizione, Carlo Alberto passò da Siviglia a Parigi, dove giunse il 3 dicembre 1823. Nella capitale francese ebbe modo di partecipare a balli, ricevimenti, feste, e di coltivare l’affettuosa amicizia di Maria Carolina di Borbone, vedova da tre anni del duca di Berry. Il 15 dicembre il re di Francia Luigi XVIII diede un grande ricevimento per i vincitori del Trocadero. Fra gli ospiti d’onore al pranzo reale, Carlo Alberto.
Di fronte al riscatto internazionale, il re di Sardegna Carlo Felice decise che era venuto il momento di far tornare Carlo Alberto a Torino. Al Principe venne però fatto sottoscrivere un giuramento nel quale si impegnava «a rispettare e a mantenere religiosamente, quando salirà al potere, tutte le leggi fondamentali della monarchia, che ne hanno fatto durante i secoli la felicità e la gloria». Il 29 gennaio 1824, Carlo Alberto ricevette il permesso di partire per Torino, ma prima ebbe un colloquio con Luigi XVIII che gli diede alcuni consigli sulla sua futura attività di sovrano, e lo insignì dell’Ordine dello Spirito Santo, il più prestigioso ordine cavalleresco della monarchia francese.
Il 2 febbraio Carlo Alberto si mise in viaggio e il 6 passò il Moncenisio, dove trovò l’ordine di entrare a Torino di notte, per evitare dimostrazioni. Obbediente, il Principe rientrò a palazzo Carignano quasi alle 23.
Tornato nella capitale sabauda, da erede al trono Carlo Alberto si preparò a regnare vivendo principalmente nel Castello Reale di Racconigi. Iniziò a studiare una materia poco apprezzata a corte, l’economia, e nel 1829 ottenne il consenso a visitare la Sardegna. Del viaggio trasse un’accurata relazione sulle condizioni dell’isola. Fu uno scrittore prolifico. Nel 1827 insieme alla moglie scrisse 38 favole per i figli intitolandole Contes moreaux (Racconti morali) in francese, la lingua di famiglia. L’anno dopo si cimentò in una commedia e in seguito si occuperà di critica letteraria e di storia. Farà stampare tre operette: Notizie sui Valdesi, Ricordi dell’Andalusia e Viaggio in Sardegna. Di tutti questi lavori Carlo Alberto si pentì e ordinò di ritirarli dalla circolazione. Lasciò comunque un grande numero di corrispondenze e di esercitazioni letterarie.
Nonostante le idee conservatrici del periodo, Carlo Alberto sosteneva anche i letterati che professavano idee liberali, tra cui Carlo Botta i cui libri erano proibiti in Piemonte. Possedeva le opere di Adam Smith e la Collezione degli scrittori classici italiani di economia politica curata dal napoleonide Pietro Custodi.

Nel 1830 i francesi cacciarono Carlo X e Il Principe di Carignano ne fu sconvolto. Ben presto si dovrà però occupare del suo di regno, poiché Carlo Felice era molto malato. Dopo averlo fatto chiamare, il 24 aprile 1831, il sovrano fece avvicinare Carlo Alberto al proprio letto. Nella stanza era radunato l’intero governo e il Re, lucido, disse ai ministri: «Ecco il mio erede e successore, sono sicuro che farà il bene dei suoi sudditi».
Carlo Felice morì il 27 aprile alle 14.45. Carlo Alberto, chiusi gli occhi e baciata la mano del defunto, assunse la Corona di re di Sardegna. Ricevette i dignitari di corte e fece entrare stabilmente nel Palazzo Reale i propri figli. Alle 17, in piazza d’armi, le truppe del presidio prestarono giuramento al nuovo Re nelle mani del governatore Ignazio Thaon di Revel che pubblicò il proclama relativo. Da quel momento il trono passava ai Carignano e si estingueva la linea diretta dei Savoia.
Sovrano filoaustriaco (1831-1845)
Carlo Alberto, a 33 anni, iniziò così a regnare. La sua salute era peggiorata: soffriva di dolori al fegato. Anche la fede gli procurava sofferenza: portava il cilicio, dormiva su di una brandina di ferro da solo, si alzava alle 5 e ogni giorno ascoltava due messe. Lavorava dalle 10 alle 17 senza interruzione. Mangiava poco ed era colpito da crisi religiose sempre più frequenti, ma non riusciva a rinunciare alle relazioni extraconiugali, delle quali, la più importante e duratura fu quella con Maria Antonietta di Robilant (1804-1882), figlia di Friedrich Truchsess zu Waldburg (1776-1844), ambasciatore di Prussia a Torino[45] e moglie di Maurizio di Robilant (1798-1862).
Il nuovo Re, sempre impressionato dagli eventi della Rivoluzione di Luglio che avevano deposto Carlo X di Francia e determinato l’ascesa al trono di un ex rivoluzionario, Luigi Filippo, decise di stringere un’alleanza difensiva con l’Austria. Il trattato, sottoscritto il 23 luglio 1831 e ratificato nel 1836, lasciava la difesa del Regno di Sardegna all’Austria. Tuttavia, in caso di guerra, il comandante dell’esercito congiunto sarebbe stato Carlo Alberto. Quest’ultimo aveva scritto all’ambasciatore austriaco Ludwig Senfft von Pilsach (1774-1853): «[…] il più bel giorno della mia vita sarà quello in cui si farà guerra contro i francesi e io sarò felice di servire nelle truppe austriache».
Coerente con tale atteggiamento legittimista fu l’appoggio che Carlo Alberto diede alla sua amica del dicembre 1823, Maria Carolina di Borbone. Costei aspirava per il figlio al trono di Francia. Era infatti la vedova del duca di Berry, secondogenito del re deposto Carlo X, il cui primogenito, il duca d'Angoulême, aveva rinunciato al trono. Nella linea di successione non rimaneva che il figlio di Maria Carolina, Enrico, di cui il parlamento francese aveva però invalidato la nomina a sovrano.
Nonostante l’ambasciatore di Francia gli consigliasse prudenza, nel 1832 Carlo Alberto fece avere a Maria Carolina, contraendo un debito, un milione di franchi e le mise a disposizione un piroscafo con il quale trasportare in Francia i volontari legittimisti. La trama fu scoperta e fallì: il piroscafo fu bloccato a Marsiglia e in Vandea i partigiani della duchessa furono sbaragliati in poche ore. Maria Carolina di Borbone dopo una breve fuga fu arrestata a Nantes e rinchiusa nella cittadella di Blaye, presso Bordeaux.
Quasi analogo conservatorismo Carlo Alberto dimostrò in politica interna. Quando il ministro della Guerra Matteo Agnès Des Geneys (1763-1831) morì, lo sostituì con Carlo San Martino d’Agliè che a sua volta gli era poco gradito. Tenne Vittorio Sallier de la Tour agli Esteri per poi sostituirlo nel 1835 con l’arciconservatore Clemente Solaro della Margarita. Ma importanti incarichi vennero fatti con l’idea di rinnovare l’oligarchia ministeriale. Nel 1831 nominò Gaudenzio Maria Caccia conte di Romentino (1765-1834) ministro delle Finanze; Giuseppe Barbaroux ministro della Giustizia e il riformatore Antonio Tonduti conte dell’Escarèna (1771-1856) ministro dell’Interno. Il 5 aprile 1832 in sostituzione di d’Agliè, nominò ministro della Guerra Emanuele Pes di Villamarina.
La spinta liberale, però, non andò molto oltre: invano Giuseppe Mazzini nel giugno 1831, esule a Marsiglia, rivolse a Carlo Alberto la lettera firmata “Un italiano”, in cui lo esortava a farsi guida di quanti si battevano per l’unità d’Italia. Il nuovo Re di Sardegna rimaneva, almeno per il momento, quasi delle stesse idee dei suoi predecessori.

Ciononostante, creato un Consiglio di Stato di 14 membri che avrebbe dovuto studiare le leggi da attuare, Carlo Alberto fu fautore di alcuni provvedimenti volti a modernizzare il Paese. Abrogò le esenzioni doganali privilegiate per la famiglia reale e per le cariche dello Stato, abolì la tortura, proibì le ingiurie ai cadaveri dei giustiziati e abolì la confisca dei beni dei condannati. Inoltre ebbe una notevole attenzione per la cultura: istituì nel 1832 la “Pinacoteca Regia e della Galleria Reale” di Palazzo Madama (oggi Museo civico d'arte antica) e la libreria di Palazzo reale, edificò diversi monumenti e palazzi, rifondò nel 1833 l’Accademia d’arte che prese il suo nome, Albertina, e fondò nello stesso anno la “Regia Deputazione sopra gli studi di Storia Patria” alla quale seguirono tutte le Deputazioni di storia patria fondate nel corso del XIX secolo.
Carlo Alberto accompagnò queste misure con una politica economica di liberalizzazione del commercio. Nel 1834 venne ridotto il dazio sul grano e l’anno successivo fu approvata l’esportazione della seta grezza. Successivamente vennero ridotti i dazi doganali di importazione sulle materie prime (carbone, metalli, tessuti) e favorito l’acquisto di macchinari industriali all’estero. Nonostante ciò comportasse minori entrate per lo Stato, il bilancio del Regno fu, dal 1835, in attivo e si potettero affrontare spese per il miglioramento dell’agricoltura, delle strade, delle ferrovie e dei porti.
Carlo Alberto riformò inoltre l’esercito, portando la ferma a 14 mesi, riformò i codici, istituì una Corte di Cassazione ed eliminò, nel 1838, il feudalesimo in Sardegna. Facilitò l’apertura di istituti di credito, riformò gli enti pubblici e lo Stato, sottraendolo in parte al controllo delle gerarchie ecclesiastiche. La corte, tuttavia, era affollata di religiosi, ve ne erano una cinquantina, e per essere quella di un piccolo regno, era sontuosa. Ci vivevano una quantità di cuochi, maggiordomi, camerieri, fantesche, scudieri, stallieri, paggi, valletti, musicisti, maestri di cerimonie, ecc.
Dopo la morte di re Ferdinando VII di Spagna, la nazione si divise in due fazioni, la prima, di reazionari antiliberali che appoggiava le aspirazioni legittimiste di Don Carlos e la seconda di costituzionalisti che difendevano la reggenza di Maria Cristina a tutela della piccola Isabella. La Santa Alleanza formata da Russia Austria e Prussia appoggiò moralmente Don Carlos; Gran Bretagna, Francia e Portogallo appoggiarono anche materialmente i costituzionalisti. Carlo Alberto si unì ai primi, ma dopo la guerra carlista del 1833-1840, prevalsero i costituzionalisti.
Analogamente, nelle Guerre Liberali portoghesi (1828-1834) che seguirono la morte di Giovanni VI, Carlo Alberto si schierò con gli assolutisti di Dom Miguel che fu ospitato in Piemonte. Anche in questo caso, però, vinsero i liberali comandati dal fratello di Dom Miguel, Dom Pedro che era appoggiato dalla Gran Bretagna e dalla Francia di Luigi Filippo.

L’incontro a Marsiglia fra Mazzini e Garibaldi nella sede della "Giovine Italia" nel 1833. Entrambi complottarono contro Carlo Alberto e il suo Regno e entrambi furono condannati a morte in contumacia.
Appena salito al trono, nel 1831, vi erano stati tumulti a Roma, la rivolta carbonara di Ciro Menotti a Modena, l’insurrezione di Bologna e Parma con la fuga di Francesco IV e Maria Luigia. Ma l’Austria era riuscita a riportare l’ordine e Carlo Alberto considerò provvidenziale la sua alleanza con gli Asburgo.
Anche il Regno di Sardegna, in quegli anni, fu attraversato dalle trame dei rivoluzionari e perfino da un tentativo di invasione. Nell’aprile 1833 a Genova due sottufficiali furono arrestati per una lite e si scoprì appartenevano alla “Giovine Italia” di Giuseppe Mazzini. Gli arrestati fecero vari nomi e le indagini si estesero ad altre guarnigioni. Carlo Alberto, che considerava l’associazione di Mazzini la «più terribile e sanguinaria», ordinò di andare fino in fondo, nel rispetto della legge, ma con la massima severità.
Celebrati i processi, furono eseguite 12 fucilazioni e ci furono due suicidi in carcere. 21 condanne a morte non potettero essere eseguite perché i condannati erano fuggiti o come Giuseppe Mazzini erano già all’estero. Carlo Alberto non concesse alcuna grazia e gli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna a Torino presentarono a corte una protesta per la severità delle condanne e la mancanza di qualsiasi gesto di clemenza. Il Re di Sardegna manifestò invece la sua gratitudine distribuendo onorificenze a quanti si erano distinti nella repressione.
Falliti i moti insurrezionali, Mazzini pensò ad una spedizione militare. Nel 1834 tentò infatti di organizzare un corpo di bande in Svizzera che avrebbe dovuto attaccare la Savoia (che a quel tempo faceva parte del Regno di Sardegna) e contemporaneamente sollevare la popolazione contro il Re. Ma le notizie di quella iniziativa trapelarono e Carlo Alberto predispose una vera e propria imboscata. Per quanto, l’invasione, scattata il 3 febbraio 1834, fallì quasi per conto suo: un po’ per la disorganizzazione, un po’ per gli svizzeri che bloccarono e internarono i mazziniani. Solo alcuni congiurati attaccarono sconsideratamente una caserma a Les Échelles. Due di loro vennero catturati e fucilati. Nello scontro morì il carabiniere Giovanni Battista Scapaccino, alla cui memoria Carlo Alberto conferì la prima medaglia d’oro della storia d’Italia. Intanto, a Genova, il giovane mazziniano Giuseppe Garibaldi che si preparava a far insorgere la città veniva informato che tutto era finito e che era stato individuato. Riuscì a fuggire e il 3 giugno 1834 fu condannato a morte in contumacia.
La riforma dei codici
In questo contesto Carlo Alberto si rese conto della necessità di concedere riforme per rendere il regno più moderno e per soddisfare i bisogni del popolo. Fin dal momento della sua ascesa al trono aveva nominato una commissione che aveva avuto il compito di redigere i nuovi codici civile, penale, di commercio e di procedura penale.
Il percorso di questa riforma fu assai lungo, al termine del quale, il 20 giugno 1837 fu promulgato il nuovo codice civile, ispirato in parte al Codice Napoleonico. Il Re partecipò alla stesura anche del nuovo codice penale che fu emanato il 26 ottobre 1839. Durante i lavori Carlo Alberto insistette sul concetto della pena correttiva, limitando così il più possibile la pena di morte. Egli chiese però pene severe per i colpevoli di sacrilegi e per i suicidi, i cui testamenti perdevano qualsiasi valore giuridico. Nel 1842, inoltre, vennero promulgati sia il codice di commercio, sia il codice di procedura penale, con delle innovazioni sulle garanzie dei diritti dell’accusato.
L’inizio della crisi con l’Austria
Nel 1840 la crisi d’oriente che contrappose la Francia di Luigi Filippo alle altre potenze europee, indusse Carlo Alberto a cominciare a pensare ad un programma di espansionismo territoriale nella pianura padana. Nello stesso anno si aprì una crisi commerciale fra Torino e Vienna per un vecchio trattato con il quale il Regno di Sardegna si impegnava a non fornire sale alla Svizzera. A seguito della violazione di questo trattato l’Austria aumentò del 100% il dazio sui vini piemontesi che entravano nel Lombardo-Veneto. La risposta di Carlo Alberto fu la minaccia di costruire una ferrovia che da Genova arrivasse al Lago Maggiore, di modo da deviare sulla città ligure il commercio tedesco di cui beneficiava il porto austriaco di Trieste.
Si trattava ancora solo di schermaglie perché le diplomazie dei due Stati riuscirono, ad esempio, a combinare nel 1842 un magnifico matrimonio tra il primogenito di Carlo Alberto, Vittorio Emanuele, e Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena. Costei era figlia di Ranieri Giuseppe, viceré austriaco del Lombardo-Veneto e cognato di Carlo Alberto, avendone sposato nel 1820 la sorella Maria Elisabetta. I due novelli sposi erano quindi cugini di primo grado.
L’anziano Cancelliere austriaco Klemens von Metternich nel 1846 chiese a Carlo Alberto chiarimenti sulla politica del Regno di Sardegna.
Nel 1845 moti rivoluzionari scoppiarono a Rimini e nello Stato Pontificio. A Massimo d'Azeglio, che era andato a riferirgli sugli avvenimenti, Carlo Alberto disse: «… che il giorno della lotta contro l’Austria egli si sarebbe gettato con i suoi figli, con il suo esercito, con tutte le sostanze, a combattere per l’indipendenza d’Italia».
Comprensibilmente, l’8 giugno 1846, per ordine del Cancelliere Metternich, l’ambasciatore austriaco a Torino, Buol, invitò Carlo Alberto a chiarire la sua politica: o con l’Austria o con la rivoluzione. Il Re di Sardegna temporeggiò. Intanto, il 16 giugno, veniva eletto papa Pio IX, la cui prima preoccupazione fu di concedere l’amnistia ai condannati per reati politici. Il nuovo pontefice protestò poi contro l’Austria per aver occupato Ferrara, nel territorio della Chiesa, senza il suo consenso. Carlo Alberto, che in Pio IX vide un modo di conciliare la fede con le sue antiche idee liberali, gli scrisse offrendogli il suo appoggio.
Allo stesso modo, nel settembre 1847 Cesare Trabucco, segretario di Carlo Alberto, in un’occasione pubblica fu autorizzato a leggere una lettera del 2 del mese nella quale il Re sperava che Iddio gli facesse la grazia di poter intraprendere una guerra di indipendenza per la quale lui avrebbe preso il comando dell’esercito e della causa guelfa. Queste dichiarazioni e questi atteggiamenti resero molto più popolare Carlo Alberto. Egli tuttavia faceva sciogliere le manifestazioni antiaustriache, anche perché la corte e il governo erano divisi. De La Tour, Il ministro degli Esteri Solaro della Margarita e l’arcivescovo Luigi Fransoni consideravano pericolosa la strada che aveva intrapreso, ma gli erano favorevoli il ministro della Guerra Villamarina, Cesare Alfieri di Sostegno, Cesare Balbo, Massimo e Roberto d’Azeglio e il giovane conte di Cavour[68].
Intanto le richieste della popolazione si facevano pressanti e non sempre venivano accolte. In quel periodo, ad esempio, Carlo Alberto non accettò una delegazione genovese che chiedeva l’espulsione dal Regno dei gesuiti, ai quali aveva già imposto una censura sugli scritti politici[66]. Egli attuò però la cosiddetta “Fusione perfetta” dello Stato Sabaudo del 29 novembre 1847, ciò che estese alla Sardegna le riforme attuate sul continente.
All’inizio del 1848 arrivarono le notizie che a seguito dei moti della “Primavera dei popoli” Ferdinando II di Borbone aveva concesso la costituzione. A Torino si acclamava al Re di Napoli e al Papa, mentre Carlo Alberto, angosciato, era vincolato al giuramento prestato a Carlo Felice di rispettare religiosamente tutte le leggi fondamentali della monarchia, fra le quali egli riteneva ci fosse l’assolutismo.
Il 7 gennaio 1848 all’albergo Europa di Torino si era tenuta la riunione dei giornali della città e Cavour, direttore del Risorgimento, aveva proposto di chiedere al Re la Costituzione. Anche la maggior parte dei ministri era del parere che la Costituzione andava concessa, anche per impedire che venisse imposta dal popolo. Carlo Alberto, indeciso sul da farsi, non volendo mancare al giuramento, pensò di abdicare, come aveva fatto in analoghe circostanze Vittorio Emanuele I. Mandò a chiamare il figlio per prepararlo alla successione, ma l’erede riuscì a convincerlo a rimanere al suo posto.
Il 7 febbraio si riunì un Consiglio di Stato straordinario. Erano presenti sette ministri, i decorati dell’ordine dell’Annunziata e gli alti dignitari. Parlarono tutti e la discussione proseguì per molte ore. Carlo Alberto, pallido, ascoltava in silenzio. Contrari alla Costituzione erano De La Tour, Carlo Beraudo di Pralormo e Luigi Provana di Collegno. Nell’intervallo del pranzo Carlo Alberto ricevette una delegazione della capitale che gli chiedeva la Costituzione per il bene della popolazione e per la salvaguardia dell’ordine.
Era ormai necessario prendere una decisione e, alla fine, fu incaricato il ministro dell’Interno Giacinto Borelli (1783-1860) di preparare subito un disegno di Costituzione. Il documento venne approvato e gli fu dato il nome di “Statuto”. Carlo Alberto aveva premesso che non avrebbe firmato se non fosse stato chiaro il rispetto della religione cattolica e l’onore della monarchia. Ottenutele, firmò. La seduta si sciolse all’alba.
Verso le 15,30 dello stesso 8 febbraio 1848, venne affisso per le strade di Torino un editto del Re che esponeva in 14 articoli le basi dello Statuto per un sistema di governo rappresentativo. Già alle 18 la città era tutta illuminata e percorsa da imponenti dimostrazioni a favore di Carlo Alberto.
L’editto precisava che la religione cattolica era l’unica dello Stato, il potere esecutivo apparteneva al re che comandava le forze armate, il potere legislativo era esercitato da due Camere, una delle quali elettiva, la stampa era libera e la libertà individuale garantita. Lo Statuto, completo di tutti i suoi articoli, fu approvato definitivamente il 4 marzo 1848 e firmato quello stesso giorno da Carlo Alberto. L’annuncio dello Statuto suscitò grande entusiasmo in tutto il Piemonte. Il primo governo costituzionale fu presieduto da Cesare Balbo che si insediò il 16 marzo 1848, due giorni prima dell'inizio delle Cinque giornate di Milano.
La “Primavera dei popoli”
 Lo stesso argomento in dettaglio: Primavera dei popoli.

Eletto nel 1846, il nuovo papa Pio IX accese gli animi di tutti i liberali d’Italia quando cominciò a smantellare le arcaiche istituzioni vaticane: concesse la libertà di stampa, istituì la Guardia civica al posto dei mercenari stranieri e creò un Consiglio dei ministri. Il 12 gennaio 1848 insorse Palermo e re Ferdinando II fu costretto a concedere la costituzione, ma tutta l’Europa entrò in agitazione quando, il 22 febbraio 1848, insorse Parigi cacciando re Luigi Filippo per instaurare una Repubblica. La ribellione si propagò a Milano il 18 marzo, a Venezia e perfino a Vienna dove i moti costrinsero Metternich e l’imperatore Francesco Giuseppe alla fuga[75].
A Milano ci si aspettava che Carlo Alberto cogliesse l’occasione ed entrasse in guerra contro l’Austria. Al liberale lombardo Francesco Arese giunto a Torino fece avere un chiaro messaggio:
« Potete assicurare quei signori[76] che io do tutte le disposizioni possibili: che quanto a me, brucio dal desiderio di portar loro soccorso e che io coglierò il minimo pretesto che possa presentarsi. »
Nonostante le risorse del Regno fossero esigue l’esercito piemontese iniziò la mobilitazione. Le truppe per lo più si trovavano schierate ai confini occidentali, essendo quelli orientali garantiti dal trattato di alleanza con l’Austria. Ma Carlo Alberto si rendeva conto che questa era l’unica possibilità di ampliare i suoi possedimenti alla Lombardia. Per questo chiese ai milanesi, una volta liberati dagli austriaci, di proclamare l’annessione al Regno di Sardegna quale ricompensa al suo intervento militare.
Il 23 marzo 1848 a Torino l’inviato piemontese a Milano tornò con la notizia che gli austriaci erano stati costretti ad evacuare la città e che si era costituito un governo provvisorio guidato da Gabrio Casati il quale invocava Carlo Alberto come alleato. Evidentemente non molto entusiasti dell’idea di essere annessi, i milanesi chiesero al Re di tenere le truppe possibilmente fuori dalla città e di adottare come bandiera il tricolore della Repubblica Cisalpina.
Carlo Alberto, benché non avesse avuto la garanzia dell’annessione, accettò le condizioni dei milanesi e chiese solamente che sul tricolore comparisse lo stemma di Casa Savoia[79]. Stava per entrare in guerra con un colosso le cui truppe in Italia erano comandate da uno dei migliori generali viventi: Josef Radetzky. Riscattatosi completamente dal suo passato reazionario, il sovrano apparve al balcone di palazzo reale a fianco dei rappresentanti milanesi agitando la sciarpa tricolore, mentre il popolo in delirio lo applaudiva al grido di: «Viva l’Italia! Viva Carlo Alberto!»
Il milanese Carlo Cattaneo criticò la lentezza della decisione di Carlo Alberto di entrare in guerra: «Si udì per cinque giorni, in Piemonte, il rimbombo della mitraglia che ci divorava: il Re lo sapeva e non si mosse».
Il 23 marzo 1848 venne pubblicato il proclama di Carlo Alberto ai popoli della Lombardia e del Veneto con il quale si assicura che le truppe piemontesi «[…] vengono ora a porgervi nelle ulteriori prove quell’aiuto che il fratello aspetta dal fratello, dall’amico l’amico. Seconderemo i vostri giusti desideri fidando nell’aiuto di quel Dio che è visibilmente con Noi, di quel Dio ha dato all’Italia Pio IX, di quel Dio che con sì meravigliosi impulsi pose l’Italia in grado di fare da sé. […]»: era la guerra.
Il federalista Carlo Cattaneo non apprezzò: «Ora che il nemico è in fuga il Re vuole venire con tutto l’esercito: doveva mandarci almeno un carro di polvere tre giorni fa: si udì per cinque giorni, in Piemonte, il rimbombo della mitraglia che ci divorava: il Re lo sapeva e non si mosse: i poveri volontari si sono ben mossi».

Carlo Alberto lasciò Torino la sera del 26 marzo 1848 diretto ad Alessandria per prendere il comando dell’esercito, poi raggiunse Voghera. Era preoccupato per il ritardo di una decisione del governo provvisorio milanese in favore dell’annessione al Regno di Sardegna. Gli austriaci, intanto, si erano ritirati sul fiume Mincio, ad un passo dalle fortezze del Quadrilatero, mentre il Re il 29 entrava trionfalmente a Pavia dove giunsero ad ossequiarlo alcuni inviati del governo milanese. Il 2 aprile il sovrano era a Cremona, il 5 a Bozzolo, il 6 ad Asola, l’8 a Castiglione delle Stiviere e l’11 a Volta Mantovana, a quattro chilometri dal Mincio. Era ormai al fronte[83].
Aperte le ostilità, fra l’8 e il 9 i bersaglieri avevano ottenuto un successo nel primo scontro della campagna battendo gli austriaci nella battaglia del ponte di Goito. Passato il Mincio con il suo esercito, Carlo Alberto il 30 aprile ottenne un’altra vittoria a Pastrengo, dove si espose in prima linea: i reparti al suo seguito furono presi di mira dagli austriaci che vennero dispersi da una carica dei carabinieri a cavallo. Fu in questa atmosfera di entusiasmi che il 2 maggio arrivò la ferale notizia che Pio IX qualche giorno prima aveva ritirato il suo appoggio militare e politico alla causa italiana.
Nonostante ciò i soldati pontifici inviati non si ritirarono e rimasero a combattere come volontari, ma a Carlo Alberto venne a mancare la motivazione morale del suo gesto: svanì il suo sogno di divenire la spada del papato ed essere il re di un’Italia unita sotto Pio IX come sperava Vincenzo Gioberti[84]. Il sovrano tuttavia non si scoraggiò e continuò l’avanzata verso Verona, alla cui periferia, il 6 maggio, un duro scontro con gli austriaci, la battaglia di Santa Lucia, ebbe un esito incerto.
Due altri avvenimenti seguirono nei giorni successivi. Il 21 maggio il contingente di 14.000 uomini dell’esercito napoletano che si era messo in marcia contro l’Austria, ebbe ordine da Ferdinando II (che aveva seguito l’esempio Pio IX) di tornare in patria; e il 25 i rinforzi austriaci che avevano attraversato il Veneto raggiunsero le truppe di Radetzky a Verona. A Carlo Alberto, ambizioso ma di modeste capacità strategiche, non rimase che proseguire da solo la guerra. La battaglia di Goito e la resa di Peschiera (30 maggio) furono i suoi ultimi successi, poi, gli austriaci conquistarono Vicenza (10 giugno) disperdendo i volontari pontifici e, infine, ottennero sui piemontesi un vittoria decisiva nella battaglia di Custoza tra il 22 e il 27 luglio.
L’8 giugno i milanesi e i lombardi avevano nel frattempo votato a stragrande maggioranza per l’annessione al Regno di Sardegna, così come avevano fatto il 24 maggio i cittadini del Ducato di Parma e Piacenza. Ma le cose per Carlo Alberto andavano male: i soldati risentivano delle recente sconfitta e della fatica della campagna ed erano affamati ed esausti. Un consiglio di guerra scelse l’ipotesi di chiedere una tregua.
La sera del 27 luglio 1848 gli austriaci si resero disponibili alla tregua, ma solo se i piemontesi si fossero ritirati sulla sponda destra dell’Adda (a poco più di 20 km ad est di Milano) e avessero rinunciato sia alle fortezze, tra cui quella di Peschiera, sia ai ducati di Parma e Modena che i rispettivi sovrani erano stati costretti a lasciare. Carlo Alberto, in contrasto con il figlio Vittorio Emanuele sulla conduzione della guerra, esclamò «Piuttosto morire!» e si preparò a resistere sull’Oglio (cioè almeno 25 km più ad est rispetto a quanto chiesto da Radetzky).
Rifiutata la proposta austriaca, si giudicò però l’Oglio troppo debole come linea difensiva e le truppe dovettero comunque ritirarsi sull’Adda. Qui alcune manovre dovute alla libera iniziativa di un generale portarono all’isolamento di una divisione e alla necessità di retrocedere ancora, verso Milano. Nei suoi pressi gli austriaci attaccarono i piemontesi il 4 agosto. Dopo una giornata di battaglia gli austriaci prevalsero e i piemontesi si ritirarono nelle mura della città. Carlo Alberto, riparatosi a palazzo Greppi, non tenendo conto della volontà di resistenza dei milanesi, trattò con gli austriaci la resa della città in cambio della ritirata dell’esercito sabaudo in Piemonte.
Il giorno dopo i milanesi seppero dell’accordo e scoppiò la loro indignazione. La folla protestò di fronte a palazzo Greppi e quando il Re si affacciò al balcone furono sparate alcune fucilate al suo indirizzo[89]. Allora il secondogenito di Carlo Alberto, Ferdinando, e il generale Alfonso La Marmora portarono in salvo il Re che di, notte, lasciò Milano seguito dall’esercito.
L’8 agosto, il generale Carlo Canera di Salasco tornò a Milano e trattò con gli austriaci l’armistizio che poi prese il suo nome (Armistizio Salasco) e che fu firmato il 9. Carlo Alberto ratificò l’armistizio nonostante il parere negativo di alcuni, fra cui Gioberti, che ritenevano auspicabile e probabile un aiuto della Francia. Quest’ultima, secondo il Re, così come aveva dichiarato l’ex ministro degli Esteri francese Alphonse de Lamartine, avrebbe aiutato esclusivamente i repubblicani.
L’orgoglio ferito di Carlo Alberto non si placò e, scritte le memorie della prima campagna militare, decise di rompere l’armistizio. Il 1º marzo, all’inaugurazione della legislatura, parlò con chiarezza di guerra e la Camera gli rispose positivamente. Per l’imminente ripresa delle ostilità il Re si lasciò convincere a rinunciare al comando effettivo dell’esercito che continuò a detenere in modo formale e, amareggiando i generali piemontesi, scelse come comandante il generale polacco Wojciech Chrzanowski. L’8 marzo 1849 a Torino il consiglio dei ministri decise che la tregua sarebbe stata denunciata il 12. Per cui, secondo le clausole dell’armistizio, le ostilità sarebbero cominciate otto giorni dopo, il 20.
Quello stesso giorno, infatti, la prima guerra di indipendenza riprese. Il 22 marzo Carlo Alberto giunse a Novara e il giorno dopo Radetzky attaccò la città da sud in superiorità numerica presso il borgo della Bicocca. Chrzanowski commise alcuni importanti errori tattici e, nonostante il valore dei piemontesi e dello stesso Carlo Alberto che si batté in prima linea con il figlio Ferdinando, la sconfitta fu disastrosa.
Tornato a Novara, a palazzo Bellini, il Re dichiarò: «La Bicocca è stata perduta e ripresa tre o quattro volte, poi le nostre truppe hanno dovuto cedere… il generale maggiore [Chrzanowski] si è adoperato a tutto il suo potere, i miei figli hanno fatto tutto il loro dovere, il duca di Genova [Ferdinando] ebbe uccisi sotto di sé due cavalli. Ora ridotti entro la città, sulle mura, col nemico qui sotto e con l’esercito stremato, una ulteriore resistenza è impossibile. Occorre chiedere l’armistizio».
Le condizioni poste dall’Austria furono durissime: occupazione della Lomellina e della fortezza di Alessandria, nonché consegna di tutti i patrioti lombardi che si erano battuti contro l’Austria. Carlo Alberto chiese allora ai generali se fosse stato possibile un ultimo sforzo per aprirsi la strada verso Alessandria. Gli fu risposto di no: l’esercito era a pezzi, la disciplina era crollata, molti militari battevano la campagna saccheggiando i casolari dei contadini, e si temevano aggressioni alla sua stessa persona.
Alle 21,30 dello stesso 23 marzo 1849 Carlo Alberto chiamò i figli, Chrzanowski, i generali Alessandro e Carlo La Marmora, Giovanni Durando, Luigi Fecia di Cossato (che aveva trattato l’armistizio) e il ministro Carlo Cadorna. Confessò di non avere altra scelta che abdicare. Tentarono di dissuaderlo, ma lui, nella speranza che l’erede potesse ottenere condizioni migliori, chiuse la discussione dicendo: «La mia decisione è frutto di matura riflessione; da questo momento io non sono più il re; il re è Vittorio, mio figlio».

Il figlio primogenito di Carlo Alberto, ormai re di Sardegna con il nome di Vittorio Emanuele II, si incontrò il 24 marzo 1849 a Vignale con Radetzky e ottenne effettivamente delle clausole più vantaggiose rispetto a quelle previste in un primo momento. Gli austriaci avrebbero occupato momentaneamente la Lomellina e solo una metà della piazzaforte di Alessandria, con una formula che parlava di “permesso” e non di “diritto”.
Carlo Alberto intanto aveva lasciato Palazzo Bellini a Novara pochi minuti dopo la mezzanotte del 23 marzo. La carrozza si diresse verso Orfengo (a metà strada fra Novara e Vercelli) probabilmente senza una meta precisa, ma dopo poco fu fermata ad un posto di blocco austriaco. Carlo Alberto disse di essere il conte di Barge (titolo che realmente possedeva), colonnello dell’esercito piemontese. Il generale Georg Thurn Valsassina (1788-1866) volle interrogarlo e non si sa se lo riconobbe o meno. Fattolo riconoscere come conte di Barge da un bersagliere catturato (alla domanda «potete confermare che si tratta del conte di Barge?» il soldato rispose «È il conte di Barge»), Carlo Alberto fu lasciato passare e proseguì il suo viaggio verso sud-ovest.
L’ex sovrano proseguì per Moncalvo, Nizza Monferrato, Acqui, Savona, Ventimiglia e il Principato di Monaco, dove arrivò il 26 marzo. A Nizza (all’epoca del Regno di Sardegna) gli fornirono un passaporto per consentirgli di attraversare la Francia, la Spagna e il Portogallo. Da Antibes, in Francia, inviò istruzioni per sistemare gli affari di famiglia, senza aggiungere alcuna informazione per la moglie. Il 1º aprile era a Bayonne, quasi sulla costa atlantica, e il 3 lo raggiunsero da Torino per fargli firmare l’atto legale di abdicazione.
L’ex sovrano proseguì per Torquemada, Valladolid, Leon, La Coruña, dove arrivò il 10 aprile e dove terminarono le strade carrozzabili. A cavallo, affrontando il maltempo, giunse a Lugo e il 15 aprile entrò in territorio portoghese a Caminha. Da qui giunse a Viana do Castelo, Póvoa de Varzim e, finalmente, il 19 aprile a mezzogiorno a Oporto. Da qui avrebbe voluto forse imbarcarsi per l’America, ma fu costretto a fermarsi perché il viaggio l’aveva stroncato ed era malato di fegato.

Appena giunto nella città portoghese, Carlo Alberto fu sistemato all’ Hotel do Peixe dove rimase per due settimane, durante le quali sue condizioni si aggravarono. Accettò poi una nuova residenza da un privato in rua de Entre Quintas, con vista sull’oceano.
Durante quei giorni Carlo Alberto soffriva di deperimento progressivo, tosse, ascessi. Lo colpirono due infarti, ma i medici consideravano più grave la situazione del fegato, per la quale l’ex sovrano si ostinava a mangiare pochissimo e a digiunare il venerdì. Leggeva le lettere e i giornali che arrivavano dall’Italia. Scriveva saltuariamente alla moglie, ma con calore e assiduità alla contessa di Robilant. Vietò sia alla madre che alla moglie e ai figli di fargli visita.

Nel mese di giugno il suo stato di salute peggiorò irreparabilmente. Dal 3 luglio, assistito dal medico Alessandro Riberi che Vittorio Emanuele gli aveva inviato da Torino, non fu più in grado di alzarsi ed era scosso da attacchi sempre più frequenti di tosse. Trascorse la notte fra il 27 e il 28 luglio in grande agitazione. Durante la mattinata del 28 si sentì meglio ma poi le condizioni peggiorarono a causa di un terzo infarto. Il sacerdote portoghese don Antonio Peixoto, che lo assisteva spiritualmente, accorse e gli impartì l’estrema unzione. L’ex sovrano mormorò in latino: «In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum» («Nelle tue mani, Signore, affido il mio spirito»). Si addormentò con il crocifisso sul petto. Morì alle 15,30 del 28 luglio 1849, a poco meno di 51 anni.
Il corpo fu imbalsamato ed esposto nella cattedrale di Oporto. Il 3 settembre giunsero le navi Monzambano e Goito al comando di Eugenio di Savoia, cugino del defunto. Il 19 la salma fu trasportata a bordo del Monzambano che salpò la sera stessa per Genova, dove giunse il 4 ottobre. I funerali, con grande partecipazione di popolo, si svolsero il 13 nel Duomo di Torino, celebrante l’arcivescovo di Chambéry Alexis Billiet assistito da cinque vescovi piemontesi. Il giorno dopo la salma venne tumulata solennemente nei sotterranei della Basilica di Superga, dove tuttora riposa.